Che cosa ne pensi?

Corpo e sangue del Signore A

Il ricordo del Signore

Il tema di questa festa è indicato dalla prima lettura in cui l’autore, che parla in nome di Mosè, fa leva sul concetto di «memoria»: gli israeliti devono ricordare ciò che il loro Dio ha fatto per loro, liberandoli dalla schiavitù dell’Egitto e sostenendoli nelle difficili prove attraverso cui sono dovuti passare nel deserto. Chiaramente non si tratta di una memoria puramente concettuale, ma di un ritornare con la mente e con il cuore a un evento passato sul quale si basa la realtà stessa della loro esistenza come comunità. Per gli israeliti ricordare l’uscita dall’Egitto significava mettere al centro della loro esistenza come popolo la fedeltà a Dio, espressa mediante l’osservanza della sua legge. 

Nel brano del vangelo Giovanni ci ha lasciato, attribuendola a Gesù stesso, una catechesi sul significato della cena che i cristiani celebravano nelle loro comunità. Ripetere il gesto e le parole di Gesù, significava per loro ricordare tutto quello che egli aveva detto e compiuto, il suo annunzio della prossima venuta del regno di Dio e il suo amore per i poveri e per gli emarginati, fino alla sua morte cruenta sulla croce. I cristiani erano consapevoli che mangiando il suo pane e bevendo il suo vino essi entravano in comunione con lui, cioè diventavano partecipi della sua stessa vita. Ciò significava la possibilità di vivere in questo mondo come lui era vissuto, nella fedeltà a Dio e ai fratelli. In forza di questo rapporto con lui essi facevano l’esperienza di uscire da se stessi e di porsi al servizio degli altri nella ricerca generosa del bene comune. Gesù sottolinea che solo possedendo già quaggiù la sua vita è possibile ottenere un giorno, dopo la morte, una vita nuova con il Padre. 

Nella seconda lettura ritorna il tema della comunione con Gesù che si attua quando si mangia il suo pane e si beve il suo sangue. Ricordando in chiave personale e comunitaria quello che lui era stato e aveva fatto per loro, i credenti adottano la sua logica di vita che consiste nell’impegno per anticipare nell’oggi il regno di Dio. Essi diventano così una realtà nuova, cioè vengono a formare un solo corpo con Gesù e con i fratelli. 

L’Eucaristia è dunque il segno sensibile della presenza reale di Cristo nella comunità dei suoi discepoli. Spesso nella messa l’accento è posto sulla “consacrazione” perché con essa si rende presente il corpo e il sangue del Signore. Questo poi diventa oggetto di culto mediante l’adorazione eucaristica, le processioni, la benedizione eucaristica. Oggi, con la riforma liturgica, è venuto in primo piano il concetto di memoria. Chi partecipa alla cena del Signore ricorda la sua persona, il suo insegnamento, la sua morte e la sua risurrezione. Questo ricordo, se è autentico, dovrebbe produce un’intensa comunicazione tra i presenti, che diventano così un corpo solo con Cristo e si mettono al servizio gli uni degli altri e della società a cui appartengono. Se questo non avviene, vuol dire che si è ancora lontani dall’ideale proposto da Gesù.

Santissima Trinità A

L’incontro con il Dio inconoscibile

Nel primo concilio di Nicea, che ha avuto luogo nel 325, è stata formulata la dottrina secondo cui Dio è unico quanto a natura ma in lui ci sono due persone, il Padre, il Figlio; successivamente è stata aggiunta una terza persona, lo Spirito santo. Questa dottrina ha consentito il superamento delle divergenze allora presenti nel movimento cristiano. Con il tempo però è diventato una formula che, proprio perché è continuamente ripetuta, non suggerisce più nulla ai cristiani ordinari. È dunque importante riscoprire l’origine biblica di questa dottrina e i riflessi che ha nella vita spirituale dei credenti.

Nella prima lettura è riportato il nucleo centrale del messaggio biblico, secondo il quale il mondo trae origine da una Realtà superiore, chiamata YHWH, che l’ha voluto e l’ha realizzato attraverso un’evoluzione che è durata miliardi di anni. Questo Dio è misericordioso, non tanto perché perdona il peccato di chi si pente, ma perché accetta tutte le creature che da lui hanno origine, nonostante tutti i loro limiti e le loro miserie, e dà loro armonia e finalità. È per questa sua misericordia che Dio ha ricevuto l’appellativo di Padre.

Nel brano del vangelo la paternità di Dio viene espressa come un immenso amore che si manifesta in massimo grado nella persona umana di Gesù. In quanto atto supremo di amore, il suo essere innalzato sulla croce appare come una gloria e non come un’umiliazione. Egli diventa così Maestro e ispiratore di chi si apre al suo messaggio. Ogni essere umano è equipaggiato per fare l’esperienza di Dio. Senza questa possibilità non potremmo vivere. Esistono però uomini che hanno percepito il divino in un modo speciale e sono diventati le guide spirituali dell’umanità. Gesù è uno di questi. Per i suoi discepoli è lui in sommo grado il Rivelatore del Padre. In lui essi hanno visto un riflesso speciale del Dio nascosto, il volto umano di Dio.

Nella seconda lettura, Paolo invita i cristiani a praticare l’amore vicendevole. Poi esprime i suoi saluti mediante una formula trinitaria in cui il Padre viene visto come fonte dell’amore e il Figlio come colui che ci ha donato la grazia di Dio; al terzo posto viene evocato lo Spirito come garante della comunione, cioè del legame profondo che unisce i credenti fra loro e con Dio. In altre parole il Dio nascosto si è manifestata in Gesù di Nazaret e agisce mediante lo Spirito da lui elargito nel cuore di chi crede in lui.

La Trinità è una formula che è stata imposta spesso con metodi violenti e intolleranti. Oggi è importante che non sia più ripetuta mnemonicamente ma aiuti a comprendere il mistero di un Dio nascosto che si rivela come Padre mediante il suo Figlio Gesù Cristo e muove come soffio vitale persone e cose perché evolvano verso quella pienezza che egli ha assegnato loro come scopo della sua creazione. 

Pentecoste A

I doni dello Spirito

La festa di Pentecoste commemora la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli come inizio della Chiesa. Nella prima lettura viene riportato il brano degli Atti degli apostoli in cui si descrive questo evento. Nel suo racconto Luca è preoccupato di mostrare come proprio in quella occasione Dio abbia attuato un passo importante per la salvezza di tutta l’umanità. Lo Spirito Santo simboleggia Dio in quanto opera nella storia e nel cuore degli uomini. La sua venuta viene descritta in forma simbolica come lingue di fuoco che discendevano sugli apostoli. Lo Spirito provoca in essi un fenomeno molto conosciuto e apprezzato agli inizi del cristianesimo: il parlare in lingue (glossolalia), cioè pregare Dio in una lingua diversa e sconosciuta, con un profondo fervore accompagnato da forte emotività. Luca però trasforma questo fenomeno in un parlare «altre» lingue, quelle cioè dei presenti provenienti da tutte le parti del mondo. In tal modo egli vuole sottolineare come la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli avesse lo scopo di spingerli ad annunziare il vangelo a tutte le nazioni. 

Il parlare in lingue, di cui avevano dato prova gli apostoli nel giorno di Pentecoste, era molto noto nella comunità di Corinto. Ma di esso si erano impadroniti alcuni «specialisti», persone cioè dotate di questo particolare dono («carisma»), creando un certo scompiglio nella comunità. Dal contesto della seconda lettura appare che è proprio l’esercizio di questo dono che Paolo intende correggere. Scrivendo ai corinzi, egli non condanna coloro che hanno ricevuto questo carisma, ma sottolinea che la glossolalia è solo un carisma fra i tanti che sono elargiti ai membri della comunità per il bene di tutti. Ognuno ha il suo carisma e l’unità della comunità appare proprio nell’interazione fra i diversi carismi. Nessuno è autorizzato ad appropriarsi di un carisma, esaltandolo e squalificando gli altri.

Nel brano del vangelo infine il dono dello Spirito, fatto ai discepoli dal Cristo risorto, viene messo in rapporto con la pace e con il perdono dei peccati. Il compito dei cristiani, animati e guidati dallo Spirito, è dunque quello di portare la pace e di lottare contro ogni tipo di violenza e di ingiustizia, non con mezzi violenti e neppure con la semplice protesta, ma stabilendo fra loro e con tutti un nuovo rapporto di solidarietà e condivisione.

Per essere discepoli di Gesù e membri attivi di una comunità cristiana bisogna riscoprire ogni giorno il proprio carisma e metterlo al servizio degli altri. Se ciò non avviene la Chiesa resta «ingessata», con le sue gerarchie, i suoi dogmi, i suoi riti standardizzati, le prediche noiose, a cui fa riscontro la passività dei presenti e la mancanza di conoscenza reciproca. Ma una Chiesa così ridotta difficilmente potrà diventare artefice di un profondo rinnovamento di tutta la società.

Ascensione del Signore A

La glorificazione di Gesù

La festa dell’Ascensione non ha lo scopo di giustificare la scomparsa di Gesù da questo mondo ma di affermare la sua presenza. Nella prima lettura, ricavata dagli Atti degli apostoli, Luca narra come Gesù, dopo la sua risurrezione, sia stato per quaranta giorni con i suoi discepoli e poi sia salito al cielo. Luca è l’unico che descrive in modo visivo il ritorno di Gesù al Padre. Il messaggio contenuto nel racconto degli Atti sta anzitutto nel fatto che Gesù, mentre lascia questo mondo, promette ai discepoli di inviare lo Spirito santo che garantirà loro la sua costante presenza e farà di essi i suoi testimoni. È anche significativo il dettaglio dei due uomini in bianche vesti, cioè gli angeli della risurrezione, che esortano gli apostoli a non fissare il loro sguardo al cielo ma a impegnarsi su questa terra per rendere testimonianza al Signore.

Sulla stessa lunghezza d’onda si situa anche il brano del vangelo. Diversamente da Luca, l’evangelista Matteo non parla di ascensione. Dopo la sua risurrezione, Gesù appare ai discepoli già rivestito di gloria divina e li manda a insegnare tutto quello che aveva detto loro. Il fatto che egli appaia come il Signore esaltato non è un cedimento alla tentazione di trionfalismo, ma la manifestazione simbolica di una lotta vittoriosa contro il potere del male. Per i discepoli che devono continuare la sua opera non c’è dunque spazio per il pessimismo. La promessa di essere con loro fino alla fine del mondo è un segno di speranza e una garanzia di vittoria.

Il tema del vangelo viene ripreso anche nella seconda lettura. In essa è riportata una preghiera attribuita a Paolo nella quale egli chiede a Dio per i cristiani di Efeso una più profonda conoscenza di quello che Gesù è stato e ha lasciato ai suoi discepoli. La sua esaltazione viene qui interpretato come una piena partecipazione al governo di Dio sul mondo che si esercita mediante la Chiesa. Non si tratta però di un ruolo politico ma di una testimonianza di vita che si oppone alla logica di questo mondo.

Alla luce delle letture proposte dalla liturgia appare che l’Ascensione di Gesù, con tutta la sua carica simbolica, non ci porta fuori dal mondo ma ci richiama a esso. L’unico modo per vivere la nostra unione con lui non consiste nel ritirarci in noi stessi e pensare a un’altra vita, ma nell’immergerci in questo mondo alla ricerca di un bene di cui tutti siano partecipi. Si tratta di un impegno che riguarda i credenti non solo come individui ma come membri di una comunità che anticipa, con il suo modo di essere, il regno di Dio.

Tempo di Pasqua A – 6. Domenica

Lo Spirito Paraclito

La liturgia di questa domenica, penultima del ciclo pasquale affronta, in vista della festa di Pentecoste, il tema dello Spirito Santo. Nel brano degli Atti degli apostoli scelto come prima lettura si parla di persone che si sono convertite al cristianesimo e sono state battezzate, ma non hanno ancora ricevuto il dono dello Spirito. Perciò Pietro e Giovanni si muovono da Gerusalemme per andare a imporre loro le mani. Con questo racconto Luca vuol dire che è possibile esser battezzati senza aver ancora ricevuto lo Spirito santo. Forse per questo la Chiesa, quando ha ammesso il battesimo dei bambini, ha introdotto un altro sacramento, quello della cresima, che ha lo scopo di conferire al bambino il dono dello Spirito.

Ma in che cosa consiste lo Spirito, come opera in noi? Nel brano di vangelo, Gesù promette di mandare un altro Paraclito, lo Spirito di verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Lo Spirito di Gesù è il suo modo di pensare e di agire, che si trasmette al credente e lo guida nell’impegno quotidiano per seguirlo e per imitare il suo esempio. Gesù può comunicare lo Spirito ai suoi discepoli perché è la stessa energia vitale che lui ha colto nel suo rapporto con il Padre. Inteso in questo modo, lo Spirito ci mette in un rapporto strettissimo con Gesù, che a sua volta ci rende partecipi del suo rapporto di amore con il Padre. È lo Spirito che ci pone dei problemi, ci illumina sulle decisioni da prendere, aggrega e unisce il credente a tutti coloro che si impegnano a seguire Gesù. Lo Spirito fa da elemento propulsore, suggerendo sempre nuove strade e facendo emergere ciò che di più intimo ciascuno porta dentro di sé. Il rapporto con lo Spirito inizia quando si scopre che dalla persona di Gesù si sprigiona una forza che corrisponde ai propri desideri più profondi e alle proprie aspirazioni. Solo con l’aiuto dello Spirito possiamo elaborare in modo personale il messaggio di Gesù. Perciò lo Spirito riceve l’appellativo di «paraclito» che a volte viene tradotto «consolatore»: questa traduzione non è sbagliata perché lo Spirito svolge il ruolo di sostegno nei momenti di difficoltà, di delusione e di angoscia. Ma il senso di «paraclito» si avvicina di più a quello di «avvocato difensore». Lo Spirito rappresenta infatti nella nostra vita quella profonda convinzione interiore che difende in noi la persona e l’opera di Gesù, cioè ci rende sicuri che il suo messaggio è «vero»: per questo è chiamato «Spirito di verità». 

Nella seconda lettura un autore cristiano che, verso la fine del secolo, scrive a nome dell’apostolo Pietro, ci invita ad adorare Cristo nei nostri cuori, in modo da ottenere la speranza in un mondo nuovo e a batterci perché esso si realizzi. Proprio operando per un mondo migliore possiamo rendere ragione della speranza che è in noi. Chi è entrato in un rapporto personale con Gesù diventa suo testimone. Questa speranza non si testimonia con parole arroganti, tipiche di persone che pensano di avere sempre ragione, ma con rispetto e dolcezza. La violenza, anche solo verbale, è l’antitesi del messaggio di Gesù.

La pratica del battesimo dei bambini, nonostante il successivo sacramento della cresima, ha fatto sì che esistessero persone che, pur essendo state battezzate, ma non hanno avuto l’esperienza dello Spirito. Per loro l’essere cristiani consiste essenzialmente nella pratica di alcuni riti cristiani, come la Messa domenicale, nell’accettazione di alcuni dogmi o comandamenti etici e nella sottomissione all’autorità gerarchica. È chiaro che in un cristianesimo vissuto in questo modo lo Spirito Santo è assente, è uno sconosciuto. Oggi si sente sempre più la necessità di una vera «spiritualità». Ma lo Spirito si può scoprire nella misura in cui si riserva un tempo per leggere, meditare, riflettere e soprattutto ci si rende disponibili a un’autentica esperienza comunitaria. 

Tempo di Pasqua A – 5. Domenica

Una verità che conduce alla vita

Il tema di questa domenica è adombrato nella prima lettura dove appare come già nella comunità primitiva si sia verificata una spaccatura, quella tra i cristiani di lingua ebraica e quelli di lingua greca. Il motivo sembra banale: l’assistenza alle vedove. Ma probabilmente c’era molto di più: rispetto ai cristiani nati e vissuti in Palestina, Stefano e i suoi compagni avevano una diversa visione del cristianesimo, più dinamica e progressista; per il loro zelo nell’annunziare Gesù, attireranno su di sé la persecuzione dei giudei e Stefano sarà ucciso. È interessante come Luca descrive il comportamento degli apostoli: essi non si atteggiano a detentori esclusivi della verità ma riconoscono ai nuovi cristiani un ruolo importante nella comunità.

Nel vangelo Gesù dice che nella casa del suo Padre ci sono diverse dimore: ritornando al Padre egli va a prepararci un posto. Non penso che Gesù si riferisca all’altra vita. Subito dopo infatti dichiara di essere lui la via, la verità e la vita: in altre parole egli è già, nella nostra esistenza terrena, la via che conduce alla verità dalla quale scaturisce la vera vita. Nel linguaggio di Gesù, così come lo interpreta Giovanni, la verità ha un posto molto importante. Per capire che cosa vuol dire dobbiamo rivolgerci alle Scritture, dove il termine tradotto «verità» significa piuttosto fedeltà. Esso esprime un attributo di Dio, la prerogativa che fa di lui il Dio fedele, che ha misericordia verso Israele e quindi, di riflesso, verso l’uomo in quanto tale. Secondo Gesù Dio non è un’entità astratta, lontana, ma un Padre che non abbandona mai la sua creatura. Affermando di essere la verità Gesù non intende sostituirsi a Dio ma sottolinea come in lui la presenza del Dio fedele prende una forma umana, viene riflessa sul suo volto. Se sul volto di Gesù risplende la fedeltà di Dio, vuol dire che egli è anche la via, in quanto mette chi crede in lui a contatto con questa verità che è la fedeltà di Dio; egli è anche la vita perché dalla verità/fedeltà di Dio deriva la vita vera, una vita orientata verso il Bene sommo che è Dio. Da questo rapporto con Gesù, via verità e vita, deriva per il credente la possibilità di fare le stesse opere compiute da lui; anche la sua preghiera non può non essere ascoltata perché è fatta con Gesù e per mezzo di lui.

Il tema della verità appare indirettamente anche nella seconda lettura dove Gesù è presentato come una pietra viva; anche coloro che credono in lui diventano pietre vive per costruire con lui e su di lui, pietra angolare, il nuovo tempio. In esso i credenti sono partecipi di un sacerdozio santo e offrono a Dio sacrifici spirituali a lui graditi. Questi sacrifici consistono nella proclamazione delle ammirevoli opere di Dio. Il sacerdozio dei cristiani consiste dunque nella comunione che li unisce con Gesù e fra di loro e al tempo stesso nell’annunzio della fedeltà di Dio che opera continuamente per la salvezza di questa umanità che lui ha creato

Nella Chiesa si dà spesso una grande importanza a concezioni astratte, regole morali o riti, il tutto considerato come la Verità suprema a cui aderire. Per i primi cristiani non era così. Per loro la verità non era altro che la fedeltà di Dio che guida le sue creature a un fine di bene. Per loro questa verità/fedeltà era visibile sul volto di un Uomo, Gesù, il quale non solo ha ricevuto il compito di condurre l’uomo alla verità di Dio, ma lui stesso l’ha rivelata e fatta pregustare. 

Tempo di Pasqua A – 4. Domenica

Il pastore e il gregge

La liturgia di questa domenica propone il tema di Gesù buon Pastore e di riflesso ci invita a riflettere sul ministero nella Chiesa. Nella prima lettura viene riportata la conclusione del primo discorso missionario fatto da Pietro nel giorno di Pentecoste e poi la reazione da parte della gente. Pietro annunzia che Dio ha costituito come Signore e Cristo quel Gesù che essi hanno crocifisso. Gesù esaltato è l’unico pastore della comunità. Perciò Pietro invita gli ascoltatori a convertirsi e ricevere il battesimo, cioè ad accogliere Gesù come guida e a esprimere mediante il Battesimo il rapporto con lui. E infine li esorta a salvarsi da questa generazione perversa: ciò non significa fuggire dal mondo ma operare per trasformare alla luce del Vangelo la società in cui si vive.

Nel brano del vangelo, secondo l’evangelista Gesù esprime il suo rapporto con chi lo segue alla luce di quello che è il rapporto tra il pastore e le pecore del gregge. In quanto pastore, Gesù «chiama le pecore una per una e le porta fuori dal recinto», cioè stabilisce con i suoi discepoli un rapporto personale che si basa sulla conoscenza vicendevole. In altre parole non dà ordini e direttive, ma apre con loro uno scambio che li porta a una crescita comune nella solidarietà. Egli «cammina innanzi a loro», vivendo lui per primo in sintonia con il suo messaggio, invitandoli a seguirlo e a camminare senza paura. Gesù li mette in guardia dai falsi pastori che fanno i propri interessi e non si prendono cura delle pecore: sono persone che invece di servire la comunità si servono di essa. Gesù si presenta anche come la porta, cioè come colui che non solo introduce coloro che lo seguono al rapporto con Dio ma lo realizza in se stesso, diventando lui il nuovo tempio di Dio.

Nella seconda lettura Pietro propone l’esempio di Gesù, definito come pastore e custode delle nostre anime: a lui attribuisce un atteggiamento radicale di non violenza. È questa la modalità con cui il Pastore guida il suo gregge

In una comunità cristiana l’unico pastore è Gesù e tutti i suoi membri devono sentirsi come fratelli e sorelle che interagiscono in forza della loro fede e del loro rapporto con Gesù. Coloro che ricevono un ministero comunitario sono pastori solo in senso analogico, in quanto strumenti dell’unico Pastore. Nella comunità essi non hanno un posto privilegiato ma semplicemente un compito specifico, che è quello di rappresentare al vivo l’unico Pastore. 

Tempo di Pasqua A – 3. Domenica

L’incontro con Gesù

Le letture di questa domenica richiamano il tema delle Scritture a cui i primi cristiani fanno appello per annunziare la risurrezione di Gesù. Nella prima lettura Luca riporta il primo discorso fatto da Pietro per annunziare la risurrezione di Gesù. Egli è preoccupato soprattutto di dimostrare che essa era stata preannunziata nelle Scritture perché, se ciò non fosse vero, i suoi connazionali ben difficilmente avrebbero accettato un evento così straordinario. Per noi oggi il suo discorso è problematico perché, da quanto ne sappiamo, non risulta che gli eventi riguardanti Gesù fossero preannunziati dalle Scritture. Ma forse Pietro intendeva qualcos’altro.

Anche nel brano del vangelo avviene qualcosa di simile. I discepoli di Emmaus non credevano nella risurrezione di Gesù perché non avevano ancora capito le Scritture. Quando lo sconosciuto gliele spiega, a loro arde il cuore nel petto: egli infatti mostra loro che nelle Scritture, anche se in esse non si parla esplicitamente di lui, è delineato un progetto di salvezza che Gesù ha portato a compimento e che non poteva non concludersi se non con il suo ritorno al Padre. Ma solo in seguito, allo spezzar del pane, essi riconoscono nel loro compagno di viaggio Gesù risorto. Questo racconto vuole dimostrare che Gesù si riconosce in due modi interconnessi: leggendo le Scritture e partecipando alla vita di una comunità che ne fa la memoria.

Nella seconda lettura l’autore, che si presenta come l’apostolo Pietro, rivolgendosi a cristiani di origine giudaica, interpreta Gesù come «agnello senza difetti e senza macchia», cioè che ha praticato fino in fondo la non violenza: è così che ci ha liberati dal peso dei nostri limiti e condizionamenti, indicandoci la via per raggiungere la Dio.

La messa è per noi il luogo per eccellenza dell’incontro con Gesù. Per questo nella liturgia cristiana ci sono tre letture ricavate rispettivamente dall’AT, dai vangeli e dagli altri scritti cristiani. Le letture ci immergono nel piano di Dio attuato da Gesù e nell’esperienza che di esso hanno fatto i primi cristiani. Ma è nello spezzare il pane, all’interno di un intenso rapporto comunitario, che incontriamo Gesù vivo e operante in mezzo a noi.

Tempo di Pasqua A – 2. Domenica

La comunità cristiana

La prima lettura ci invita in questa seconda domenica di Pasqua a riflettere sulla vita comunitaria così come è stata proposta da Gesù e vissuta dai primi cristiani. Per costoro la fede in Gesù significava veramente una scelta di vita alternativa. Ne parla Luca nel brano degli Atti degli apostoli: «Avevano ogni cosa in comune». In un mondo in cui ciascuno difende a oltranza il proprio orticello, saper condividere rappresenta una vera rivoluzione. E non si tratta solo della condivisione dei beni materiali. Sarebbe troppo poco. Anzitutto devono essere condivisi i pensieri, i progetti, i sogni, la ricerca di un mondo migliore. 

Nel brano del vangelo Gesù parla di pace e di perdono dei peccati. Solitamente si interpreta questo messaggio in chiave individualista, come qualcosa che riguarda noi cristiani e il nostro bisogno di essere perdonati, magari per superare i nostri sensi di colpa. Il vangelo invece considera il perdono come un grande progetto di riconciliazione, con Dio naturalmente ma al tempo stesso tra persone che si incontrano e formano insieme una comunità di fratelli. Questa necessità viene oggi avvertita in modo sempre più chiaro: le guerre devono cessare e l’umanità deve lottare in modo solidale contro sfruttamento, fame, malattie. Ma per fare questo bisogna credere che Gesù è vivo e condividere con lui la fede in un mondo migliore. È significativa la vicenda di Tommaso. Un discepolo che aveva creduto in Gesù e lo aveva amato con grande trasporto. Ma quando Gesù appare ai discepoli, Tommaso non è con loro e non è disposto a credere nella sua risurrezione se non ha la possibilità di vederlo e di toccarlo. Gesù lo accontenta, ma lo esorta a non essere incredulo ma credente. Sì, tocca pure, sembra dirgli, ma guarda che la fede è un’altra cosa. E Tommaso rinunzia a toccare le ferite di Gesù e reagisce con un vero atto di fede: «Mio Signore e mio Dio!». Così è ritornato a far parte del gruppo dei primi testimoni. Ma Gesù soggiunge: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto». Per credere non c’è bisogno di vedere un morto risuscitato. Bisogna saper sognare… e fare esperienza di una comunità in cui quel sogno comincia ad avverarsi.

Su questa linea nella seconda lettura l’autore, che si presenta come Pietro, rivolgendosi ai destinatari della sua lettera, dice riguardo a Gesù: «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui». Si tratta dunque di cristiani che non hanno conosciuto direttamente Gesù, né prima né dopo la sua morte e risurrezione. Ma credono in lui e formano una comunità in cui ciò che sperano è già anticipato.

La risurrezione di Gesù non è un fatto strepitoso che rivela la natura trascendente di Gesù ma un mistero nel quale si crede nella misura in cui si fa l’esperienza di rapporti nuovi fra le persone e ci si impegna insieme per un mondo migliore.

Domenica delle Palme – A

La sfida della non violenza

In questa questa domenica delle Palme viene letto per intero il racconto della passione di Gesù secondo Matteo. Il tema predominante, è quello della non violenza, che è segnalato dalla prima lettura. In essa viene riportato il terzo carme del Servo del Signore. Per capire questo personaggio bisogna ricordare che si tratta di una figura di leader politico-religioso che si è battuto per la liberazione del suo popolo, diviso e disperso nell’esilio. Egli si trovava in una situazione in cui sarebbe stato spontaneo imporre un «regime» dittatoriale agli esuli e suscitare una ribellione violenta contro coloro che detenevano il potere. Il Servo invece fa leva sul ritorno alle proprie radici religiose e sulla fede nel Dio liberatore, puntando sul ritorno a valori condivis ed evitando una ribellione violenta nei confronti delle autorità straniere. Questo comportava per lui la disponibilità ad accettare su di sé la violenza che esplodeva nelle persone e nella società senza difendersi con mezzi ugualmente violenti. 

La non violenza è anche la prospettiva con la quale Matteo legge la passione di Gesù. A tal fine egli aggiunge al racconto di Marco, che riporta integralmente, alcuni brani che mettono in luce il suo pensiero. Due sono particolarmente significativi, uno all’inizio e l’altro alla fine del racconto. Anzitutto all’inizio, quando Gesù sta per essere arrestato nell’Orto degli Ulivi, qualcuno dei suoi tenta una resistenza armata, ma Gesù lo blocca con due argomenti: chi di spada ferisce di spada perisce; si devono compiere le Scritture che hanno predetto ciò che doveva accadere. Si tratta di una forte presa di posizione in favore della non violenza, indicata come la strada voluta da Dio per attuare la salvezza. Poi alla fine, la morte di Gesù viene accompagnata da uno sconvolgimento cosmico, e molti corpi di santi ritornano in vita: inizia così simbolicamente la risurrezione dei morti con cui il regno di Dio viene inaugurato. Sono questi segni che spingono un centurione romano, primo dal mondo delle nazioni, a riconoscere che Gesù è veramente il Figlio di Dio. Il metodo non violento adottato da Gesù ha avuto dunque un risultato strepitoso.

Nella seconda lettura Paolo presenta ai cristiani di Filippi, come esempio da adottare nella loro vita comunitaria, l’esperienza umana di Gesù che ha rinunziato a ogni potere umano accettando l’umiliazione della croce; per questo egli è stato esaltato al di sopra di tutti gli esseri creati. La pratica della non violenza non solo ha successo, ma è essa stessa la più grande manifestazione della dignità umana.

In un mondo in cui domina ancora la violenza, la passione di Gesù è un segno di riconciliazione e di pace, ma anche una forte messa in guardia: la non violenza è l’unica arma efficace per portare la pace non mondo. Ma si tratta di una scelta che ha dei costi e richiede un grande coraggio.

Tempo di Quaresima A – 5. Domenica

Una vita nuova

Nella prima lettura il profeta Ezechiele parla agli ebrei che erano esuli in Babilonia. Dopo la distruzione di Gerusalemme essi si consideravano come un ammasso di ossa aride: si sentivano come un popolo ormai distrutto. A loro il profeta rivolge una parola di speranza: Dio aprirà le vostre tombe, cioè vi farà ritornare in vita e vi ricondurrà verso la terra promessa ai vostri padri. Questa impresa si attuerà mediante un dono interiore: «Farò entrare in voi il mio Spirito e rivivrete…». Questa profezia sottolinea la forte componente comunitaria della vita. Si può affrontare in modo efficace una rinascita sociale e politica solo come popolo, vincendo la paura, ricominciando a sperare nella vita. 

Nel vangelo si parla di Lazzaro, un amico di Gesù, che si trovava già da quattro giorni nel sepolcro. Ciò che colpisce è il fatto che Gesù non accorre subito al suo fianco. Lo lascia morire e poi va e gli ridona la vita. Non esclude la morte, ma aiuta a superarla. A sua sorella Marta Gesù dice: «Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me anche se muore vivrà.  Chiunque vive e crede in me non morrà in eterno». Questa frase allude alla risurrezione di Cristo e di coloro che credono in lui. Anzi, chi crede in lui non dovrà aspettare la morte per ottenere una vita nuova ma la ottiene fin d’ora. Perciò è importante chiedersi in che cosa consista la fede in Gesù e come essa comunichi la vita. Spesso è difficile rispondere a queste domande perché si considera la fede in Gesù come un riconoscere in lui il Figlio di Dio incarnato. Ma secondo l’evangelista Gesù vuole dire qualcosa di più: credere in lui significa riconoscerlo come Maestro di vita, seguirlo nel suo rapporto personale con Dio e, di conseguenza, aprirsi agli altri mettendosi al loro servizio. La fede in lui non libera dalla morte, ma dalla schiavitù della morte, cioè da una morte che ci impedisce di vivere perché ci sprofonda nella paura e nell’angoscia. Credere significa sperare in un avvenire migliore, essere convinti che possiamo fare qualcosa per noi stessi e per gli altri, nonostante tutti i problemi che si prospettano all’orizzonte. Questa fede, anche se comporta rinunce e difficoltà di ogni tipo, è fonte di pace, di gioia e di benessere a tutti i livelli. Chi ottiene questa vita non ha più paura della morte perché vede in essa non una tragedia ma la porta che introduce alla pienezza di quella vita che già si possiede.

Nella seconda lettura si afferma che Gesù ci fa risorgere donandoci il suo Spirito, che è lo Spirito di Dio, cioè Dio stesso che ha dato a lui per primo la possibilità di vivere in un modo nuovo. È questo Spirito che ci dà la possibilità di essere figlie di Dio e di rivolgerci a lui come padre. Noi siamo vivi nella misura in cui ci impegniamo con Gesù, sotto la guida dello Spirito, per attuare una giustizia vera, che consiste nella ricerca del bene comune. Solo chi spera in un mondo nuovo può combattere contro ogni forma di male in sé e nella società. Senza questa speranza siamo già morti, anche se viviamo biologicamente.

Spesso anche noi siamo nella situazione degli esuli. Abbiamo raggiunto un alto standard di vita, ma ci sentiamo pieni di paura: la salute, la crisi economica, la disoccupazione, il precariato, la mancanza di futuro per le giovani generazioni. La fede in Gesù ci spinge a lottare con fiducia non contro le prove della vita per eliminarle, ma dentro le prove per farle diventare occasione di una rinascita per noi e per gli altri. 

Tempo di Quaresima A – 4. Domenica

La luce della salvezza

Il tema di questa liturgia consiste nella metafora della luce applicata alla persona di Gesù. Nella prima lettura si racconta l’episodio emblematico della chiamata di Davide come re al posto di Saul. Davanti a Samuele sfilano prima i suoi fratelli, maturi e robusti, ma alla fine è scelto proprio lui, un ragazzino privo di qualsiasi qualità regale, che non era neppure presente. L’insegnamento di questo testo è condensato nel detto: «L’uomo vede l’apparenza ma il Signore vede il cuore». Per una scelta gratuita di Dio anche Davide è un «inviato» come sarà il suo lontano discendente.

La lettura del vangelo approfondisce questo tema in quanto presenta l’esperienza di un uomo, cieco dalla nascita, che incontra Gesù e da lui è guarito. La guarigione del cieco nato è presentata da Giovanni come una illuminazione. Questa luce gli viene donata da Gesù mediante l’immersione in una fonte che si chiama Siloe, che significa «inviato». Questa immersione ha carattere simbolico in quanto illustra l’incontro con Cristo, l’inviato per eccellenza: èlui che porta al mondo la luce di Dio. La guarigione fisica, infatti, apre al cieco un percorso che lo porta a un incontro personale con Gesù, luce del mondo. Una volta guarito, egli affronta con coraggio gli oppositori che vogliono fargli negare il dono ricevuto. Non ha paura neppure della scomunica da parte delle autorità. Attraverso queste difficoltà egli giunge all’incontro finale con Cristo che si rivela a lui come il Messia. Tutto il racconto ha lo scopo di mostrare, attraverso l’esempio del cieco guarito, che Gesù è portatore di una luce capace di guidare i credenti verso Dio e fare di loro una comunità di fratelli. Da esso emerge il contrasto tra i farisei che non vogliono riconoscere Gesù e il cieco che riacquista la vista e alla fine giunge a riconoscere Gesù e a credere in lui. I primi credono di vedere, ma diventano sempre più ciechi perché sono chiusi nelle loro idee e preconcetti, mentre il cieco guarito si apre alla novità portata da Gesù e trova in lui il senso della vita.

Nella seconda lettura l’autore spiega che cosa significa accogliere Cristo luce del mondo. Per il credente si tratta sostanzialmente di rompere con il male e di orientarsi verso i frutti della luce, identificati nella bontà, nella giustizia e nella verità. In queste tre parole è condensato un programma di vita in cui la ricerca del bene non è mai disgiunta dall’apertura alla verità, in qualunque modo si manifesti, e dal rapporto di amore verso tutti i figli di Dio. E l’autore sottolinea che proprio comportandoci come figli della luce, e non con facili denunce, si vincono le tenebre che sembrano invadere il mondo.

La luce di cui parla la liturgia di questa domenica consiste nella possibilità di dare un senso alla propria vita. Ciascuno di noi si porta dentro delle domande a cui è difficile dare una risposta: da dove vengo? Che cosa ci sto a fare in questo mondo? Che cosa mi aspetta alla mia morte? Gesù è per noi una luce non perché dà una risposta prefabbricata a queste domande ma perché, da vero Maestro, ci stimola a ricercare e trovare noi stessi una risposta. Ma non sarà mai una risposta definitiva. L’unica risposta possibile sta nel vivere con sincerità in rapporto con lui, aprendo gli occhi a tutto quanto la vita e il rapporto con gli altri ci insegnano. Questo è anche il motivo che giustifica l’esistenza di una comunità cristiana.

Tempo di Quaresima A – 3. Domenica

L’acqua della vita

La liturgia di questa domenica propone come tema di riflessione il simbolismo dell’acqua. Nella prima lettura viene riportato un episodio dell’esodo. Dopo l’uscita dall’Egitto, gli israeliti giungono a una località dove manca l’acqua. Potevano aspettarselo. Nel deserto l’acqua scarseggia e spesso manca del tutto. Che fare? Essi non trovano di meglio che mormorare contro Mosè, dimenticando che ciò significa mancare di fiducia in Dio. Questa volta però Dio non punisce il popolo assetato ma gli dona l’acqua di cui ha bisogno. L’acqua dalla roccia diventa così il simbolo della misericordia di Dio che dona la salvezza ai suoi figli.

Nel vangelo è riportato il dialogo di Gesù con la samaritana. Anche qui si parla di acqua. La prima impressione è che si tratti dell’acqua materiale. Gesù infatti chiede da bere alla donna samaritana, la quale si stupisce che un giudeo chieda dell’acqua a lei, che è samaritana. E’ questa una conseguenza dell’egoismo umano, in forza del quale si creano barriere invalicabili, che non permettono il comune godimento dei beni della terra. Gesù supera questa logica e promette l’acqua viva che zampilla per la vita eterna. La donna non capisce, chiede a Gesù di darle di quell’acqua, pensa che si tratti dell’acqua materiale. Invece Gesù si è spostato su un altro piano, quello del simbolismo. L’acqua di cui egli dispone è lo Spirito di Dio, che egli comunica a chi lo segue. Questo Spirito, insieme alla Verità, di cui Gesù è depositario (cfr. Gv 1,17), deve diventare il principio ispiratore del nuovo culto, l’unico che Dio gradisce.

Nella seconda lettura Paolo ci informa che la speranza in un mondo nuovo non delude perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori mediante lo Spirito santo che ci è stato dato. Questo Spirito è Dio stesso che ci interpella mediante l’esperienza umana di Gesù. La sua morte in croce, che va contro corrente rispetto al nostro egoismo (empietà), ci coinvolge e ci fa entrare in una logica diversa, quella della condivisione. Solo mediante l’amore vicendevole, infuso dallo Spirito e illuminato dalla memoria di Gesù, una comunità può dare a Dio il culto che gli è gradito.

L’acqua è un dono di Dio che non può essere negato a nessuno. Non esiste interesse nazionale che giustifichi l’appropriazione di un bene che appartiene a tutti. Ma anche in senso metaforico l’acqua, in quanto simbolo di salvezza, non può essere monopolizzata da nessuno. Essa può essere solo cercata e condivisa con tutti al di là di ogni barriera politica o religiosa.

Tempo di Quaresima A – 2. Domenica

L’incontro con Dio

Il tema delle letture di questa domenica è quello dell’incontro con Dio. Nella prima lettura si racconta che Abramo lo ha incontrato nell’atto stesso di ricevere una chiamata, quella di lasciare patria, clan e famiglia e di avviarsi verso una terra sconosciuta. Una decisione molto avventata e rischiosa in un contesto sociale come quello in cui viveva il patriarca. Come contropartita riceve tre promesse: egli riceverà una benedizione da trasmettere a tutti, diventerà progenitore di un grande popolo, otterrà in dono una terra nella quale questo popolo potrà soggiornare. Belle speranze! Ma intanto Abramo è a capo di un piccolo gruppo di migranti, ha una moglie sterile e, quando arriverà alla terra promessa, si accorgerà che essa è già abitata da altri. C’è di che scoraggiarsi. Come ha potuto Abramo credere in questa promessa? È Dio quello che ha incontrato o è il prodotto di una mente malata?

Il racconto riportato dal vangelo ci riporta alle stesse drammatiche domande. Gesù ha appena preannunziato per la prima volta la sua morte e risurrezione, smentendo le attese trionfalistiche dei suoi discepoli. Ora si sta recando a Gerusalemme, dove le sue predizioni si realizzeranno. In questo contesto l’evangelista riporta lo strano episodio della trasfigurazione nel quale Gesù appare contornato da una luce divina. Mosè ed Elia, che appaiono accanto a lui, rappresentano rispettivamente la legge e i profeti. Sono loro che hanno tenute vive lungo i secoli le promesse fatte ad Abramo in mezzo a parziali realizzazioni e grandi disastri. Ora in Gesù si manifesta pienamente il piano di Dio che sta per realizzarsi. Ma non nei termini che Pietro aveva immaginato quando lo aveva indicato come il Messia. Come per Abramo quello che si profila è un fallimento! E la voce dal Cielo dice ai discepoli: «Ascoltatelo!». È duro seguire uno che sta per essere condannato a morte credendo che sia lui a salvare il mondo.

Nella seconda lettura viene ripreso un tema caro a Paolo: la salvezza è un dono gratuito di Dio, che non si ottiene mediante le opere buone, ma mediante la fede. Ma per ottenerlo bisogna saper ascoltare, come la voce dal cielo ha suggerito ai discepoli. Ciò significa non cessare mai di credere e di sperare. E soprattutto bisogna essere disposti a pagare di persona.

L’incontro con Dio ha luogo quando si crede che il mondo migliore annunziato da Gesù sia possibile. Perché solo da questa fede nasce quel rapporto con Dio che sta all’origine di tanti altri rapporti nei quali si rende già presente nell’oggi quel mondo nuovo che si spera. Perché il mondo nuovo non si realizza con grandi imprese ma attraverso rapporti che trasformano le persone. 

Tempo di Quaresima A – 1. Domenica

La tentazione

La quaresima inizia con una riflessione sul tema della tentazione. Nella prima lettura si parla della creazione dei progenitori e della loro caduta. È un racconto mitologico, che riguarda non tanto l’esperienza di una improbabile coppia originale, quanto piuttosto quella di ciascuno di noi. I progenitori cedono alla tentazione di essere come Dio. È questa la grande tentazione dell’uomo, che si concretizza nel mettere se stesso al centro, pretendendo che tutto, persone e cose, ruotino intorno a lui.

Nel brano del vangelo si racconta la tentazione che Gesù ha dovuto affrontare all’inizio della sua vita pubblica. L’evangelista parla di una tentazione in tre momenti: trasformare le pietre in pane, buttarsi giù dal pinnacolo del tempio, adorare il diavolo per avere da lui il potere su tutti i regni del mondo. Anche qui non si tratta di una descrizione oggettiva dei fatti, ma di un racconto che esprime in modo simbolico la pressione che sarà esercitata su Gesù in tutto il suo ministero, per indurlo a capeggiare un movimento di rivolta armata contro i romani. Era questo ciò che la gente si aspettava dal Messia in quanto Figlio di Dio. Questa concezione del Messia si basava sulla ricerca del potere economico e politico nonché del consenso pubblico come mezzo per realizzare una società migliore. Gesù ha vinto le suggestioni del diavolo e ha puntato invece su una grande azione risanatrice, che partiva dal cuore della gente, pur sapendo che ciò avrebbe comportato, apparentemente, una sconfitta.

Nella seconda lettura, Paolo parla della nostra solidarietà con Adamo, l’uomo peccatore, e la sua sostituzione con la solidarietà con Cristo. Questa comporta per noi il superamento della tentazione di mettere il nostro io al primo posto. Ciò si realizza quando si comprende che non si può essere felici da soli e che un mondo migliore si basa sul rapporto con l’altro. 

Le tentazioni di Gesù sono le stesse a cui sono andati incontro Israele e la Chiesa nella loro storia millenaria. Sono anche le stesse a cui è sottoposto ciascuno di noi. Purtroppo sia Israele che la Chiesa hanno spesso ceduto alla tentazione. Anche noi, nel nostro piccolo, cediamo facilmente alla suggestione del potere umano, in tutti i suoi aspetti. Non c’è bisogno di chiamare in causa Dio o il diavolo per spiegare la nostra inclinazione al male. La tentazione fa parte del nostro essere creature limitate e angosciate dalla paura. E così anche la caduta. Ma Dio è lì per indicarci la strada e per darci la forza di percorrerla.

Tempo Ordinario A – 03. Domenica

La venuta del regno di Dio

In questa domenica appare per la prima volta nella liturgia il tema del regno di Dio annunziato da Gesù. Nella prima lettura è riportato un oracolo contenuto in una sezione del libro del profeta Isaia chiamata «libretto dell’Emmanuele». In esso la nascita di un fanciullo della casa di Davide, viene presentata come l’occasione in cui appare una grande luce, simbolo di una gioia immensa: essa è motivata dal fatto che la popolazione della Galilea, umiliata dalla dominazione straniera, ha ottenuto finalmente la liberazione, fonte di pace e giustizia.

Nel brano del vangelo, Matteo vede l’attuazione della profezia isaiana nel fatto che proprio in Galilea, una regione periferica, abitata in gran parte da gentili, Gesù ha cominciato ad annunziare la venuta del regno dei Cieli, cioè di Dio,. consiste in una società in cui cadono le barriere e viene attuata la giustizia, che significa fraternità e condivisione. E per far capire che il lieto annunzio del Regno non era un semplice annunzio teorico, Gesù chiama immediatamente i primi quattro discepoli, i quali lasciano tutto per seguirlo. È inverosimile che ciò sia avvenuto subito all’inizio del ministero di Gesù, prima che egli illustrasse il senso di questo annunzio. Ma per l’evangelista è importante parlarne subito, in quanto mostra in atto la dinamica del regno. Là dove esseri umani sanno superare i propri interessi e aggregarsi in vista di un bene comune, il regno di Dio ha inizio, comincia a manifestarsi. La prontezza con cui i primi chiamati seguono Gesù, distaccandosi da tutto quanto possedevano, mostra come questo regno debba avere il primato su tutti i propri interessi personali.

Anche per Paolo il fatto che i cristiani siano uniti nonostante le loro differenze culturali e sociali è l’espressione più efficace della forza trasformatrice del Vangelo, al centro del quale c’è la croce di Cristo. È chiaro che le diversità si superano solo se al primo posto si mette la ricerca di un mondo migliore, quello annunziato da Gesù e per il quale egli ha dato la vita.

La venuta del regno di Dio non esige da parte dei cristiani che si dedichino a pratiche rituali o all’accettazione di particolari concezioni religiose ma piuttosto che si impegno per la realizzazione di un mondo migliore, dove tutti siano riconosciuti e amati.

Avvento A – 4. Domenica

Il Figlio di Dio

Il tema di questa liturgia prenatalizia è indicato dalla seconda lettura, in cui si presenta Gesù come Figlio di Dio. Nella prima lettura si racconta che il profeta Isaia ha annunziato al re Acaz, come segno della benevolenza divina, la nascita di un bambino che sarà chiamato Emmanuele, Dio con noi. È difficile scoprire l’identità di questo bambino, ma probabilmente si tratta di Ezechia, figlio di Acaz, che sarà un re giusto e pio. In due successive profezie questo bambino è presentato come centro di un mondo rinnovato. Il testo presenta sua madre come una «giovane donna». La traduzione greca sostituisce però questo appellativo con il termine «vergine», dando così l’impressione che la madre abbia generato il bambino rimanendo vergine.

È stato facile per i primi cristiani interpretare questo bambino, portatore di una grande speranza, come la figura del futuro Messia, cioè di Gesù. Facendo leva sul malinteso secondo cui egli doveva nascere da una vergine, essi hanno hanno pensato che Maria l’avesse concepito e partorito restando vergine. Matteo e Luca hanno dato corpo a questa credenza con il racconto della sua nascita. Per Matteo però questa convinzione metteva in discussione un altro dato della tradizione: Gesù in quanto Messia è discendente di Davide. Ma la discendenza passa attraverso il padre, che però nel caso di Gesù non ha svolto un ruolo nel suo concepimento. L’evangelista racconta perciò la sua nascita in modo tale da far risaltare come per lui l’aver avuto una madre vergine non escluda la discendenza davidica. Giuseppe è un discendente di Davide; egli è sposato con Maria ma, secondo l’uso ebraico, essi non vivevano ancora insieme. Egli si rende conto con rammarico che Maria aspettava un bambino. Secondo le concezioni dell’epoca, Giuseppe avrebbe dovuto separarsi da lei, ma non vuole farle del male mettendo in pubblico un eventuale errore da lei compiuto. Ma come fare dal momento che il ripudio esigeva un atto ufficiale? In questa situazione di perplessità appare in sogno a Giuseppe un angelo che gli dice di prendere in moglie Maria perché il bambino che sta per nascere da lei è opera dello Spirito Santo. Giuseppe obbedisce: prendendo Maria come moglie, egli adotta Gesù come figlio e lo inserisce nella dinastia davidica. Per spiegare la missione assegnata a questo bambino l’angelo dice poi a Giuseppe di imporgli il nome Gesù, che significa «YHWH salva» perché salverà il suo popolo dai suoi peccati. Infine, l’evangelista cita a sostegno di questa ricostruzione la profezia della vergine. Egli non dà peso alle anomalie di tale racconto perché a lui non interessa il fatto in se stesso ma il suo significato: Gesù è l’uomo nuovo, portatore di una salvezza che riguarda tutta l’umanità.

Nella lettera ai Romani, Paolo si presenta come l’annunciatore del vangelo che riguarda Gesù Cristo. Egli lo qualifica come discendente di Davide secondo la carne, ma Figlio di Dio in potenza a motivo della sua risurrezione dai morti. Paolo non pensa alle modalità fisiche della sua nascita ma al ruolo che gli è affidato: quello di portare al mondo la bella notizia di un Dio che ama l’umanità e vuole che tutti si sentano e siano veramente suoi figli.

Secondo queste letture, Gesù è Figlio di Dio in un modo diverso da quello che è proprio di ogni credente e in ultima analisi di tutti gli esseri umani. Ciò che lo distingue è il ruolo unico che gli è stato assegnato come Maestro e guida. Anche se non tutti lo riconoscono, egli indica a tutti l’unica strada che porta alla salvezza: quella di sentirsi e di essere figli di Dio e quindi fratelli, senza barriere o esclusioni.

Tempo ordinario C – 25 Domenica

Il pericolo delle ricchezze

La prima lettura indica il tema della liturgia riportando un brano del profeta Amos, che contiene una condanna durissima nei confronti di coloro che sfruttano e opprimono i poveri e si arricchiscono alle loro spalle. Questo testo significa che l’accumulo di denaro è per se stesso disonesto perché è frutto dello sfruttamento dei poveri, i quali vengono così privati non solo di ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere ma anche della loro libertà e dignità. 

Nel brano del vangelo viene riportata una parabola in cui si narra apparentemente un fatto di disonestà: un fattore, in vista di un suo imminente licenziamento, riduce il debito contratto dai clienti del suo padrone, in modo da crearsi degli amici che lo aiuteranno quando sarà senza lavoro. Ciò che stupisce è il fatto che il suo padrone lo loda per la sua scaltrezza. Furbizia o saggezza? Gli ascoltatori di Gesù non potevano ignorare che il padrone era un ricco proprietario terriero il quale certamente aveva fatto i soldi sfruttando lavoratori e clienti. Il fattore perciò non ha fatto altro che restituire il mal tolto, privando il suo padrone non di quanto gli apparteneva ma di una parte di quanto aveva estorto ai suoi clienti. Quindi apparentemente è disonesto ma in realtà è saggio.

Per chiarire il senso della parabola l’evangelista aggiunge alcuni detti che Gesù aveva pronunziato magari in altri contesti, con il rischio di distorcerne il senso. Anzitutto, prendendo lo spunto dal tema della scaltrezza, osserva che i figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce: essi perciò, con la loro negligenza, rischiano di rendersi corresponsabili delle ingiustizie che capitano in questo mondo. Più appropriato è l’invito a farsi amici con la ricchezza disonesta per essere da loro accolti nelle dimore eterne: i beni materiali, concentrati nelle mani di pochi, non possono dunque essere che il frutto di un comportamento disonesto e quindi devono essere restituiti a coloro ai quali in realtà appartengono. Infine Gesù afferma che non si può servire Dio e mammona: un ricco che detiene per sé grosse somme di denaro e non le investe per il bene di tutti dimostra di servire non Dio ma mammona, cioè i beni materiali.

Nella seconda lettura l’autore chiede che si facciano preghiere per tutti, specialmente per i governanti perché garantiscano alla popolazione una vita serena e tranquilla. Le autorità dello stato devono garantire il benessere di tutti e non i privilegi di pochi.

Il desiderio di far soldi, tanti e presto, è una droga che uccide chi dipende da essa e provoca la rovina della società. 

Rito o memoria?

Sì, è vero, un rito può esprimere un ricordo, una memoria. Ma se questo rito si ripete all’infinito, per solennizzare qualunque evento, senza una vissuta partecipazione a ciò che si ricorda, forse è legittima la domanda circa la sua efficacia commemorativa. Se ricordiamo la tragica fine di uno che si è impegnato fino in fondo per la giustizia e la solidarietà, bisognerà pur fare qualche gesto che lo ricordi e mostri in concreto gli effetti della sua scelta. Sarà sufficiente una partecipazione esteriore, l’ascolto di testi non conosciuti e non capiti o di una predica non condivisa, una fugace stretta di mano per esprimere il coinvolgimento in una vita donata per gli ultimi, per i rifiuti dell’umanità? Che cosa hanno ormai a che vedere con il gesto finale di Gesù le grandi celebrazioni, con tanti vescovi e preti e una massa anonima, con in prima linea tante teste coronate? E nel nostro piccolo, che senso hanno le nostre messe domenicali a cui partecipano persone che non si conoscono, non condividono, ma si limitano ad assistere alla “messa di precetto”, magari con tanta devozione oppure scalpitando per una predica troppo lunga? Forse dobbiamo cominciare a farci queste domande, quando constatiamo desolati che la gente diserta le nostre messe.

Tempo Ordinario C – 21. Domenica

C’è posto per tutti

Nella prima lettura viene indicato il tema di questa liturgia: nel regno di Dio c’è posto per tutti. Questo messaggio viene illustrato mediante una scena simbolica: un giorno tutti i popoli si metteranno in cammino, come in un grande pellegrinaggio, per recarsi ad adorare il Signore nel tempio di Gerusalemme. Stranamente saranno i gentili a riportare a casa i giudei sparsi nel mondo. Toccherà proprio agli estranei indicare ai professionisti della religione la strada per ritornare al loro Dio.

Nel vangelo si pone il problema: chi si salverà? Gesù anzitutto invita tutti a entrare per la porta stretta. Poi porta l’immagine di una grande sala in cui si tiene un banchetto: è il simbolo del regno di Dio. A un certo punto il padrone chiude la porta e fuori restano persone che cominciano a bussare. Il padrone allora dice loro: «Non so di dove siete». E quelli insistono dicendo: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze». Ma il padrone non si lascia convincere e dice loro: «Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!». Chi saranno costoro? Senza dubbio si tratta di quei giudei che hanno ascoltato Gesù ma che non hanno accettato il suo insegnamento, come capita a tanti che frequentano le nostre chiese ma non sono interessati alla buona notizia di Gesù. Al posto di costoro Gesù annunzia che verranno altri da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Si tratta chiaramente di non israeliti. Tutti costoro non entrano a far parte del popolo giudaico e neppure della chiesa, ma hanno accesso al regno di Dio. È questa la meta che Dio propone a tutta l’umanità. Sia Israele che la chiesa, come anche tutte le religioni, non sono il regno di Dio ma hanno il compito di guidare ad esso, e devono rispondere se non lo fanno nel modo giusto.

Nella seconda lettura le sofferenze della vita cristiana sono presentate come una correzione che viene da Dio. Forse è meglio pensare alla porta stretta di cui parla Gesù. Chi sceglie sinceramente di seguirlo, facilmente si scontra con difficoltà e incomprensioni. Ma si tratta di un percorso obbligato. Senza la sofferenza non si arriva da nessuna parte.

Il regno di Dio non è riservato ai soliti raccomandati ma è aperto a tutti. Ciò significa che nessuno può accampare diritti. Ma la porta è stretta: per entrare bisogna dimagrire, perdere tante cose a cui siamo aggrappati alla ricerca di sicurezze e di soddisfazioni. L’adesione a una religione come il cristianesimo può esserci di aiuto, ma non basta. Forse un giorno saranno proprio gli «altri» che ci indicheranno la strada per abbandonare il dio Mammona e per ritornare al vero Dio.

Tempo Ordinario C – 20. Domenica

Un tempo di scelte

Le letture di questa domenica illustrano, come tema, la necessità di fare nella vita delle scelte spesso difficili e costose. Nella prima lettura i babilonesi stanno per conquistare Gerusalemme e spazzare via i suoi abitanti. Il profeta Geremia, mettendo al primo posto il bene del popolo, prende posizione per una resa dignitosa. Ma questo va contro gli interessi della classe dirigente, che ha paura di perdere potere e privilegi. Perciò i capi decidono di eliminare lo scomodo profeta. Il re non prende posizione. Geremia è gettato in una cisterna e sta per morire. È allora che interviene un personaggio secondario della corte, Ebed-Melec (schiavo del re), il quale rischia la vita per salvare il profeta.

Anche Gesù si trova in un momento cruciale della sua esistenza. Le opposizioni aumentano, si fanno minacciose. Potrebbe ritirarsi in buon ordine. Invece decide di andare avanti, pur sapendo di mettere a rischio la sua vita. Le due immagini del fuoco e del battesimo indicano in modo metaforico la tragedia a cui sta andando incontro. In questo frangente mette in guardia i suoi discepoli. Gesù non è, come forse alcuni possono pensare, un uomo quieto e innocuo, un pacifista che non si espone. Egli è invece un personaggio sovversivo, che porta divisione e contrasto nella società e persino nelle famiglie. Infatti Gesù contesta l’ordine costituito che si basa su strutture gerarchiche, in forza delle quali i padri esercitano il loro potere sui figli, proprio come le classi dirigenti dominano sulla popolazione. Gesù non incita però alla rivoluzione sociale ma propone rapporti nuovi, basati sulla solidarietà e sull’uguale dignità di tutti gli esseri umani.

Nella seconda lettura la necessità di fare delle scelte impegnative viene espressa mediante la metafora di un gruppo di persone, i testimoni, che si mettono a correre tenendo fisso lo sguardo su colui che apre la strada. Sono i discepoli di Gesù che seguono il loro Maestro nella lotta contro il male che si annida nella società; è lui infatti che dà origine alla nostra fede e la porta a compimento.

Nella vita c’è il rischio di lasciarsi portare dagli eventi senza mai prendere decisioni. Decidere è faticoso e spesso si preferisce lasciare ad altri il compito di farlo. Per Gesù non è così. Ognuno deve avere il coraggio di fare le sue scelte alla luce della fede e tenendo conto della realtà in cui si è immersi. Naturalmente ciò richiede di essere disposti ad assumere le conseguenze delle scelte fatte anche quando comportano contrasti e rifiuti. Con la sua vita vissuta nella fedeltà alla volontà del Padre fino alla morte egli diventa per noi colui che ci indica la strada e ci dà la forza di percorrerla fino alla fine.