Tempo di Pasqua A – 5. Domenica
Una verità che conduce alla vita
Il tema di questa domenica è adombrato nella prima lettura dove appare come già nella comunità primitiva si sia verificata una spaccatura, quella tra i cristiani di lingua ebraica e quelli di lingua greca. Il motivo sembra banale: l’assistenza alle vedove. Ma probabilmente c’era molto di più: rispetto ai cristiani nati e vissuti in Palestina, Stefano e i suoi compagni avevano una diversa visione del cristianesimo, più dinamica e progressista; per il loro zelo nell’annunziare Gesù, attireranno su di sé la persecuzione dei giudei e Stefano sarà ucciso. È interessante come Luca descrive il comportamento degli apostoli: essi non si atteggiano a detentori esclusivi della verità ma riconoscono ai nuovi cristiani un ruolo importante nella comunità.
Nel vangelo Gesù dice che nella casa del suo Padre ci sono diverse dimore: ritornando al Padre egli va a prepararci un posto. Non penso che Gesù si riferisca all’altra vita. Subito dopo infatti dichiara di essere lui la via, la verità e la vita: in altre parole egli è già, nella nostra esistenza terrena, la via che conduce alla verità dalla quale scaturisce la vera vita. Nel linguaggio di Gesù, così come lo interpreta Giovanni, la verità ha un posto molto importante. Per capire che cosa vuol dire dobbiamo rivolgerci alle Scritture, dove il termine tradotto «verità» significa piuttosto fedeltà. Esso esprime un attributo di Dio, la prerogativa che fa di lui il Dio fedele, che ha misericordia verso Israele e quindi, di riflesso, verso l’uomo in quanto tale. Secondo Gesù Dio non è un’entità astratta, lontana, ma un Padre che non abbandona mai la sua creatura. Affermando di essere la verità Gesù non intende sostituirsi a Dio ma sottolinea come in lui la presenza del Dio fedele prende una forma umana, viene riflessa sul suo volto. Se sul volto di Gesù risplende la fedeltà di Dio, vuol dire che egli è anche la via, in quanto mette chi crede in lui a contatto con questa verità che è la fedeltà di Dio; egli è anche la vita perché dalla verità/fedeltà di Dio deriva la vita vera, una vita orientata verso il Bene sommo che è Dio. Da questo rapporto con Gesù, via verità e vita, deriva per il credente la possibilità di fare le stesse opere compiute da lui; anche la sua preghiera non può non essere ascoltata perché è fatta con Gesù e per mezzo di lui.
Il tema della verità appare indirettamente anche nella seconda lettura dove Gesù è presentato come una pietra viva; anche coloro che credono in lui diventano pietre vive per costruire con lui e su di lui, pietra angolare, il nuovo tempio. In esso i credenti sono partecipi di un sacerdozio santo e offrono a Dio sacrifici spirituali a lui graditi. Questi sacrifici consistono nella proclamazione delle ammirevoli opere di Dio. Il sacerdozio dei cristiani consiste dunque nella comunione che li unisce con Gesù e fra di loro e al tempo stesso nell’annunzio della fedeltà di Dio che opera continuamente per la salvezza di questa umanità che lui ha creato
Nella Chiesa si dà spesso una grande importanza a concezioni astratte, regole morali o riti, il tutto considerato come la Verità suprema a cui aderire. Per i primi cristiani non era così. Per loro la verità non era altro che la fedeltà di Dio che guida le sue creature a un fine di bene. Per loro questa verità/fedeltà era visibile sul volto di un Uomo, Gesù, il quale non solo ha ricevuto il compito di condurre l’uomo alla verità di Dio, ma lui stesso l’ha rivelata e fatta pregustare.
Hanno fatto in fretta i primi cristiani a dividersi: da una parte gli ebrei nati e vissuti in Palestina che parlavano ebraico (aramaico) e dall’altra quelli di lingua greca provenienti dalla diaspora. Luca lo ricorda onestamente, ma il motivo che ne dà è poco convincente: forse non si trattava del servizio alle vedove ma di un diverso modo di presentare la persona di Gesù. Comunque il messaggio è chiaro: anche i dissidi fanno parte di un’esperienza comunitaria e l’impegno per superarli contribuisce alla formazione del credente.
Forse Luca vede nella scelta dei sette deputati al servizio delle mense l’origine di un ministero, quello del diaconato, che ai suoi tempi era esercitato nelle comunità insieme a quelli dell’episcopato e del presbiterato. È chiaro, ogni gruppo umano deve organizzarsi con incarichi stabili. Ma l’autore della prima lettera di Pietro non ha dubbi: è tutta la comunità che forma il corpo di Cristo, cioè il tempio nel quale Dio stesso abita; in essa non ci sono sacerdoti perché essa stessa svolge il ruolo sacerdotale proclamando le opere meravigliose di Dio. Quindi servitori (diaconi) della comunità sì, ma non persone che pretendono di rivestire l’autorità stessa dell’unico capo, Cristo.
Ma anche l’autorità di cui Gesù è rivestito gli viene da un altro, il Padre, con il quale egli ha un rapporto personale e profondo, fino al punto di formare un’unica cosa con lui: nell’esperienza umana di Gesù si riflette il mistero invisibile di Dio. Perciò chi vede Gesù vede il Padre. Egli lo rivela proprio in quanto ritorna a lui attraverso il dono di sé sulla croce. Gesù diventa così la manifestazione in forma umana della fedeltà (verità) di Dio, che è fonte di vita per chi crede in lui, e al tempo stesso indica la via che conduce a lui.
I discepoli di Gesù sono chiamati a seguirlo proprio nella via che lui per primo ha percorso. Così facendo danno al mondo una testimonianza: essi dichiarano con i fatti che si può vivere in modo diverso, alternativo, alla ricerca della pace, della fraternità e del progresso di tutti, in tutti i campi. Una esperienza comunitaria dovrebbe essere, se fosse genuina, la migliore preparazione all’impegno politico in difesa di una vera democrazia.
Ho letto con attenzione l’esegesi che Sandro ha fatto delle singole letture, ma tutte mi riportano a un linguaggio che non è più mio.
Nel mio percorso di studio e riflessione la figura di Gesù che seguo è quella di un uomo che con alcuni suoi compaesani ha formato in Palestina un movimento che cresce nelle aree disagiate della popolazione. Vivendo con questo la storia della sua epoca, Gesù voleva cambiarne con loro il corso, dove vedeva ingiustizia e poca fratellanza.
Certe parole, che gli hanno attribuito poi, non riesco proprio a vederle sulla bocca di Gesù, che non disquisiva per gettare le fondamenta di una religione, ma agiva per prospettare un’onestà etica, di vita e di comportamento. Parole astratte: verità, fedeltà, misericordia non so se facevano parte del vocabolario di Gesù, che si esprimeva nella lingua popolare e parlata del tempo, usata nella comunicazione quotidiana da persone semplici … certamente facevano parte della sua vita.
Noi conosciamo Gesù solo attraverso le parole e i gesti che i primi cristiani gli hanno attribuito. Perciò, se vogliamo risalire alla persona di Gesù, dobbiamo imparare il linguaggio dei primi cristiani e capire che cosa veramente volessero dire. Ma questo processo di interpretazione va di pari passo con la traduzione delle loro esperienze nel nostro linguaggio e nelle nostre situazioni di vita, che non sono più quelle di Gesù e neppure le loro. E’ un processo laborioso ma necessario, se vogliamo far tesoro di una grande esperienza religiosa come quella del cristianesimo. Sul momento non vedo altra alternativa che possa veramente dare un senso alla convivenza umana nei nostri tempi.