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Tempo Ordinario C – 21. Domenica

C’è posto per tutti

Nella prima lettura viene indicato il tema di questa liturgia: nel regno di Dio c’è posto per tutti. Questo messaggio viene illustrato mediante una scena simbolica: un giorno tutti i popoli si metteranno in cammino, come in un grande pellegrinaggio, per recarsi ad adorare il Signore nel tempio di Gerusalemme. Stranamente saranno i gentili a riportare a casa i giudei sparsi nel mondo. Toccherà proprio agli estranei indicare ai professionisti della religione la strada per ritornare al loro Dio.

Nel vangelo si pone il problema: chi si salverà? Gesù anzitutto invita tutti a entrare per la porta stretta. Poi porta l’immagine di una grande sala in cui si tiene un banchetto: è il simbolo del regno di Dio. A un certo punto il padrone chiude la porta e fuori restano persone che cominciano a bussare. Il padrone allora dice loro: «Non so di dove siete». E quelli insistono dicendo: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze». Ma il padrone non si lascia convincere e dice loro: «Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!». Chi saranno costoro? Senza dubbio si tratta di quei giudei che hanno ascoltato Gesù ma che non hanno accettato il suo insegnamento, come capita a tanti che frequentano le nostre chiese ma non sono interessati alla buona notizia di Gesù. Al posto di costoro Gesù annunzia che verranno altri da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Si tratta chiaramente di non israeliti. Tutti costoro non entrano a far parte del popolo giudaico e neppure della chiesa, ma hanno accesso al regno di Dio. È questa la meta che Dio propone a tutta l’umanità. Sia Israele che la chiesa, come anche tutte le religioni, non sono il regno di Dio ma hanno il compito di guidare ad esso, e devono rispondere se non lo fanno nel modo giusto.

Nella seconda lettura le sofferenze della vita cristiana sono presentate come una correzione che viene da Dio. Forse è meglio pensare alla porta stretta di cui parla Gesù. Chi sceglie sinceramente di seguirlo, facilmente si scontra con difficoltà e incomprensioni. Ma si tratta di un percorso obbligato. Senza la sofferenza non si arriva da nessuna parte.

Il regno di Dio non è riservato ai soliti raccomandati ma è aperto a tutti. Ciò significa che nessuno può accampare diritti. Ma la porta è stretta: per entrare bisogna dimagrire, perdere tante cose a cui siamo aggrappati alla ricerca di sicurezze e di soddisfazioni. L’adesione a una religione come il cristianesimo può esserci di aiuto, ma non basta. Forse un giorno saranno proprio gli «altri» che ci indicheranno la strada per abbandonare il dio Mammona e per ritornare al vero Dio.

Tempo di Pasqua C – 4. Domenica

Il pastore e la sua comunità

La liturgia di questa domenica suggerisce una riflessione sul tema di Gesù buon Pastore. Nella prima lettura è significativo il brano di Isaia che Paolo e Barnaba citano quando, di fronte alle ostilità dei giudei, si rivolgono ai gentili: «Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra» (Is 49,6). Secondo Luca, Paolo e Barnaba, si sentono portatori di un messaggio di salvezza che è stato promulgato da Dio stesso per mezzo di Gesù Cristo e che è valido per tutta l’umanità.

Secondo il brano del vangelo essere salvi significa riconoscere Gesù come pastore, ascoltare la sua voce, essere conosciuti da lui e seguirlo. Per il credente il rapporto con Cristo non è frutto di uno slancio mistico che lo separa dal mondo circostante, ma piuttosto implica l’inserimento in una realtà sociale composta da persone che, proprio perché si rapportano a un unico pastore, sono profondamente unite fra loro. Sullo sfondo si percepisce il concetto di comunità che stava alla base della vita dei primi cristiani. Il rapporto con Gesù all’interno di una forte esperienza comunitaria è salvifico perché libera dall’egoismo, in forza del quale ciascuno è portato a isolarsi e a mettere se stesso al centro di tutto. Riconoscere Gesù come pastore comporta quindi un rapporto vero e profondo fra persone. Questa è la salvezza che i credenti annunziano a una società in cui spesso prevale la violenza.

Nella seconda lettura il rapporto con Gesù viene espresso mediante l’immagine del lavare le proprie vesti nel sangue dell’Agnello, al quale viene attribuito il ruolo di pastore. Con essa si indica non tanto il martirio, quanto piuttosto quello che lo precede, e cioè l’entrare nella logica di Gesù e adottare come metodo di vita la non violenza, rappresentata nella metafora dell’agnello.

La salvezza consiste non nell’accumulare beni materiali o strumenti tecnologici, ma nell’incontrare l’altro, chiunque egli sia, come un amico e un fratello con il quale impegnarci nella ricerca di un mondo migliore. Gesù è salvatore in quanto è capace di rinnovare radicalmente i rapporti fra persone. Nella Bibbia questo tema ha una forte carica polemica in quanto, annunziando la venuta di Dio come pastore unico del popolo, mette in discussione il ruolo di una classe dirigente che non è all’altezza dei suoi compiti.

Tempo Ordinario C – 04. Domenica

Un amore che parte da lontano

Il tema di questa liturgia è indicato nella seconda lettura in chi è riportato l’inno all’amore di Paolo. In questa angolatura possiamo leggere la prima lettura in cui si racconta la vocazione di Geremia. Se vogliamo caratterizzare questo personaggio dovremmo definirlo il classico «profeta di sventura». Il compito che riceve è drammatico, poiché dovrà denunziare i misfatti di tutto il popolo, cominciando dai re, dai capi, dai sacerdoti e soprattutto dovrà annunziare la prossima distruzione di Gerusalemme e la deportazione del suo popolo. E non dovrà neppure risparmiare le altre nazioni, in quanto il fatto di essere lo strumento di cui Dio si serve per punire Israele non giustifica la loro crudeltà. Possiamo dire che Geremia non amava il suo prossimo? No certo. Anzi lo amava alla massima potenza, perché ha messo a rischio la sua vita per riportarlo sulla retta strada e rendere possibile la sua rinascita dopo la terribile prova dell’esilio.

Anche gli abitanti di Nazaret hanno considerato Gesù come un guastafeste perché, dopo aver annunziato la liberazione del popolo, non aveva soddisfatto il loro desiderio di ottenere da lui favori e prodigi. Le loro attese sono chiaramente espresse nel proverbio «Medico cura te stesso» che vuol dire per loro: «Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui nella tua patria». Per loro era importante l’amore del prossimo, cioè pensare prima ai suoi e per gli altri riservare se mai le briciole, e magari neppure quelle. Per Gesù questo non è amore del prossimo ma qualcosa che rassomiglia molto alla mafia. E per dare un fondamento indiscutibile al suo messaggio ricorda due casi in cui un profeta ha favorito degli stranieri, una vedova libanese a cui Elia ha assicurato il cibo durante una carestia e poi addirittura ha risuscitato il figlio e un generale siriano che Eliseo ha guarito dalla lebbra. Gesù vuole dire che è troppo facile amare i propri cari, dai quali si aspetta sempre un ricambio. L’amore vero comincia invece da molto lontano, dai più poveri e bisognosi, ai quali bisogna unirsi per cercare il bene di tutti. Un messaggio molto semplice, al quale però i nazaretani reagiscono addirittura cercando di farlo fuori.

L’amore di cui parla Paolo nella seconda lettura non consiste semplicemente nel fare delle grandi opere. È chiaro che, se sono fatte per essere lodati ed esaltati dagli altri, non servono a nulla. Per Paolo l’amore vero appare soprattutto nel modo di rapportarsi agli altri: benevolenza, umiltà, rinunzia al proprio interesse, ricerca della giustizia. Vorrei sintetizzare dicendo che il vero amore consiste nell’abbattere le barriere, non fare o richiedere favori, coinvolgere tutti nella ricerca di una società più giusta e solidale.

Stranamente la discriminazione nei confronti dell’altro, del diverso, sta ritornando in auge proprio ora, in un periodo in cui invece la tecnologia avvicina le persone, le religioni e le culture, offrendo strumenti enormi per superare le differenze. È questo tipo di egoismo che si trasforma spesso in razzismo. E purtroppo a volte si confonde l’egoismo con l’amore del prossimo. Possiamo immaginare che cosa direbbe oggi Geremia. Perciò non dobbiamo abbassare la guardia. Ne va del nostro futuro e di quello di tutta l’umanità.