Corpo e sangue del Signore B
In questa festa la liturgia ci invita a riflettere sul tema dell’alleanza. Nella prima lettura si parla di un rito che doveva servire a ratificare l’alleanza tra Dio e Israele. In questo rito sono presenti tutti gli elementi fondamentali dei sacrifici che venivano offerti alla divinità: l’altare, il sacerdote (Mosè), la vittima immolata, il sangue versato. Ma mentre nelle altre religioni il sacrificio era un dono fatto alla divinità per renderla “propizia” e ottenerne i favori, qui il sangue ha un valore simbolico: versato sull’altare e sul popolo esprime la “consanguineità” cioè la comunione di vita tra Dio e il suo popolo. Una comunione che, per poter sussistere, deve avere come presupposto l’osservanza dei comandamenti. Il rapporto con Dio si basa dunque non su uno scambio di favori tra Dio e l’uomo ma sulla fedeltà a Dio che si attua sulla pratica di quei valori fondamentali che sono la giustizia sociale e solidarietà. Alla luce del gesto simbolico attribuito a Mosè il narratore vuole affermare che gli analoghi sacrifici che venivano offerti nel tempio avevano lo scopo di fare memoria dell’alleanza e di orientare il popolo verso un comportamento giusto e santo.
Nell’ultima cena Gesù, prevedendo la sua morte imminente, la presenta come l’espressione del dono di sé che corona una vita vissuta per gli altri. Gesù non cerca la morte, ma è disposto a rischiare la vita perché si attui quel mondo migliore che egli aveva definito come regno di Dio. Il pane e il vino hanno chiaramente un significato simbolico. Il pane rappresenta la sua persona in quanto spesa per i fratelli mentre il sangue rappresenta la morte a cui va incontro con coraggio per vincere in se stesso e negli altri la forza del peccato, che consiste nel mettere il proprio interesse al di sopra del bene comune. La morte del giusto non è un fallimento ma una vittoria: per questo spesso i potenti di questo mondo non vogliono fare dei martiri, sono troppo pericolosi, perché hanno il potere di smuovere gli animi paralizzati dalla paura. Mediante il suo dono portato all’estremo, Gesù rinnova l’alleanza, mostrando che Dio l’ha stabilita fin dall’inizio, non con un popolo privilegiato ma con tutta l’umanità.
Nella seconda lettura viene elaborata per la prima volta esplicitamente l’interpretazione sacrificale della morte di Gesù. Alla luce dei riti sacrificali degli ebrei, la morte di Gesù viene spiegata come un sacrificio che elimina i peccati e rinnova l’alleanza tra Dio e l’umanità. Ma, attenzione! Gesù non ha compiuto nessun rito. Il suo sacrificio si svolge non in un tempio ma nel santuario celeste, cioè nella vita vissuta per Dio e con Dio. L’effetto di questo sacrificio è la vittoria sul potere del male e la proposta di una vita nuova, donata a Dio e ai fratelli.
Noi oggi possiamo ancora parlare del “sacrificio” di Cristo, ma dobbiamo abbandonare l’idea che Gesù sia morto al nostro posto per espiare i nostri peccati, cioè per essere punito al nostro posto e così ottenerci il perdono di Dio. Non è così: il suo sacrificio indica la pienezza del dono che ha fatto di sé in tutta la sua vita. È con questo dono che si rinnova l’alleanza che Dio ha stabilito fin dagli inizi con tutta l’umanità. Nella messa i cristiani ricordano ciò che ha fatto Gesù non per sentirsi dei privilegiati ma per imparare dal Maestro a donare se stessi per il bene di tutti, a partire da coloro che sono considerati come gli scarti dell’umanità.
La responsabilità di un privilegio
L’immagine di un Dio che condivide lo stesso sangue con un determinato popolo può avere un effetto mistificante sulla sua autocoscienza, determinando in esso un senso di superiorità su tutte le altre nazioni. E ciò soprattutto se si dimentica che alla base di questo rapporto privilegiato sta l’osservanza dei comandamenti, che hanno come tema la giustizia sociale. In fondo, ritenersi alleati di Dio non significa altro che assumersi la responsabilità di impegnarsi fino allo spargimento del proprio sangue per la giustizia e la solidarietà tra individui e nazioni. Era questo il simbolismo del sangue delle vittime che, nei sacrifici, gli antichi israeliti versavano sull’altare.
Nessuna meraviglia perciò se Gesù nell’ultima cena si è servito di questa immagine per interpretare la sua morte imminente. In quanto capo e guida del suo popolo egli ha voluto esprimere la sua fedeltà a Dio fino allo spargimento del sangue. Per questo egli è stato considerato come un sacerdote che sacrifica se stesso per riconciliarci con Dio. E in questo modo ha indicato la strada da percorrere per realizzare i grandi valori della giustizia, della solidarietà e della pace. Una strada difficile ma l’unica capace di salvare l’umanità dal baratro dell’odio, della violenza, della guerra.
Ripetendo i gesti e le parole di Gesù nel corso di un pasto comunitario, i primi cristiani hanno compreso che Gesù era ancora presente fra loro. Non per farsi imitare in modo pedissequo, ma per esprimere il sentimento profondo che lo univa a loro e per coinvolgerli nel suo amore che supera tutte le barriere.
Purtroppo nel corso dei secoli l’intenzione originaria di Gesù si è sbiadita: il pane e il vino spesso sono stati visti non più come un segno di amore e di condivisione, ma come una specie di talismano davanti al quale inginocchiarsi, un mezzo per ottenere favori divini e spesso occasione di litigi senza fine. L’abbandono della pratica religiosa da parte di tante persone ci aiuterà a rivedere il modo di celebrare la cena del Signore?
Le letture di questa festa pongono l’accento sull’alleanza che Dio ha stabilito con Israele e che Gesù ha rinnovato con la sua morte in croce. L’alleanza è un’immagine con cui gli ebrei hanno indicato lo strettissimo rapporto che li unisce al loro Dio. Questo è stato spesso considerato come un privilegio ad essi conferito, dal quale tutti gli altri sono esclusi. Gesù ha superato questa concezione, sottolineando come Dio sia il Padre di tutti, cominciando dagli ultimi, e si manifesti nell’atto di amore che ha portato Gesù a combattere il male fino alla morte. Gesù perciò non si aspetta dai suoi discepoli un culto ma l’attesa del regno di Dio, che consiste nell’impegno per costruire una società più giusta in collaborazione con tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Purtroppo i cristiani ben presto si sono considerati come gli eredi di Israele e hanno riservato a sé il privilegio di avere sotto le apparenze del pane e del vino un Dio da adorare e supplicare. Da qui nasce il culto eucaristico che nel corso dei secoli ha assunto a volte aspetti di vero e proprio fanatismo. Al tempo stesso le messe si sono moltiplicate e i fedeli sono diventati sempre più passivi spettatori di un rito compiuto dai presbiteri (anziani). Questi perciò sono stati considerati come persone sacre, dotate di un potere unico, quello di cambiare il pane nel corpo del Signore; perciò essi sono stati considerati non più come semplici anziani che presiedono come moderatori un’assemblea di uguali, ma come «sacerdoti», cioè ministri del culto e intermediari tra Dio e gli uomini. Oggi le cose stanno cambiando e l’eucaristia viene vista sempre più come la memoria di ciò che Gesù ha fatto e insegnato, fino alla morte che rappresenta il culmine del suo dono di sé per noi. Perciò il modo in cui si celebra la messa deve cambiare e al tempo stesso bisogna inventare altre modalità con cui fare la memoria di Gesù, anche senza la mediazione di «sacerdoti».
Graze mille per questo sito cosi bello e profondo, che Dio vi benedica