Tempo Ordinario B – 11. Domenica
Il tema di questa domenica è quello della speranza. Ciò appare subito dalla prima lettura. Il ramoscello che è prelevato dal grande albero ed è piantato sul monte di Israele rappresenta gli esuli che si trovano in Babilonia: il profeta annunzia loro che un giorno ritorneranno e si ricostituiranno come popolo nella loro terra. L’oracolo contiene anche la speranza in una figura di re fedele mediante il quale Dio farà rivivere il suo popolo. Gli uccelli del cielo che si riparano all’ombra dei suoi rami sono le nazioni che un giorno si uniranno a Israele per costituire insieme un’umanità nuova. Tutto ciò è attribuito alla potenza di Dio «che umilia l’albero alto e innalza l’albero basso».
Anche le due parabole di Gesù riportate da Marco sono un richiamo alla speranza. Il seme viene gettato nel terreno e sembra che scompaia, che muoia o magari che sia mangiato dagli uccelli. L’impressione è quella di uno spreco, mentre la gente ha un bisogno immediato di alimentazione. Per di più il contadino non può farci nulla, non può garantire che il seme cresca e dia il raccolto sperato. Non può far altro che attendere e sperare. Ma nel frattempo il seme cresce e produce spighe piene di chicchi che egli raccoglie con soddisfazione. La stessa cosa capita per il granello di senape che, nonostante la sua piccolezza, produce un grande albero, unicamente per la forza che ha in sé. Ciò avviene perché così operano le leggi della natura. Il contadino sa come andranno le cose. Non si lascia condizionare dalle apparenze. Con queste due parabole Gesù vuole dire che il regno di Dio fa la sua strada, anche se non con le modalità che vorremmo noi.
Nella seconda lettura la speranza è proiettata verso un’altra vita che ci sarà data dopo la morte. Ma questa nuova vita comincia già quaggiù, se noi ci sforziamo di essere graditi al Signore, cioè di vivere secondo gli ideali da lui proposti nel vangelo.
La fede in un Dio che è padre di tutti porta con sé la speranza in un mondo migliore, verso il quale tende la storia umana. I segni di questo mondo nuovo ci sono, ma spesso non li sappiamo vedere perché ci aspettiamo solo un progresso materiale a nostro vantaggio, non importa se gli altri ne sono esclusi. Invece ciò di cui abbiamo bisogno per essere felici è un mondo più giusto e solidale, in cui tutti sono fratelli. Se siamo disposti, come il contadino che getta il seme nel terreno, a sacrificare qualche cosa perché questo mondo nuovo si realizzi, allora ci renderemo conto che le cose cambiano per il meglio, anche se non con i ritmi che ci aspetteremmo.
Vera e falsa sicurezza
Certo per un contadino gettare al vento quel seme prezioso, che magari sarebbe necessario per nutrire i propri figli, è una grossa sfida. Crescerà veramente quel seme? Non sarà portato via dagli uccelli? Pioverà a sufficienza per farlo germinare? Non c’è il rischio che primi germogli siano spazzati via da un uragano? Comunque sia, lui non potrà farci nulla. Eppure, se vuole vedere un’abbondante mietitura deve rischiare. Se no, una volta consumato il seme, non resterà che la fame. Spesso nella vita la difesa a oltranza delle proprie sicurezze ha l’effetto contrario, quello di produrre ancora maggiore insicurezza.
Ma Gesù parlava degli inizi ben poco promettenti del regno di Dio. Piccoli gesti, rivolti a una realtà ben delimitata, di fronte a gente che si aspettava risultati immediati e decisivi. E per di più nel contesto di un regime dotato di un’agguerrita polizia segreta e disposto a reprime subito all’inizio qualsiasi tentativo di ribaltare una situazione di sfruttamento e oppressione. In fondo, lo stesso Gesù, che ci aveva provato, era stato brutalmente eliminato. Certo allora come oggi, i rischi a cui va incontro chi vuole impegnarsi per un mondo migliore sono tanti e le probabilità di successo sono poche. Ma una cosa è certa: la soddisfazione di poter operare secondo quei criteri di giustizia e di solidarietà che si vorrebbe veder trionfare è tale da giustificare qualunque sacrificio, anche quello di non vedere i risultati delle proprie scelte.
Questo vale anche per quanto riguarda l’aldilà. Chi non desidererebbe, quando verrà il momento di andare in esilio dal corpo, di abitare presso il Signore? Che bello sarebbe poter ottenere, almeno allora, il premio per tanti sacrifici e rinunce! Eppure, nonostante quanto dice Paolo, nessuno può darci la certezza che ciò avverrà. In fondo, l’essere troppo sicuri di ottenere un giorno, al momento del giudizio, un premio prestigioso e ambito, può innescare un meccanismo perverso, quello cioè di fare il bene per ottenerne un vantaggio, in questa o nell’altra vita. In fondo l’unico premio sicuro per il quale vale la pena di lottare, è la soddisfazione di fare il bene perché è bene. Ciò che avverrà dopo è nelle Sue mani.
Penso che cercare di contribuire alla realizzazione di un mondo migliore sia l’unico modo per dare un qualche senso alla nostra vita, pur tra tanti passi indietro e fallimenti. Voglio anche continuare a credere che l’impegno di ognuno di noi abbia un senso globale, malgrado io non riesca proprio a vedere, nella realtà che ci circonda, i segni di questo mondo nuovo. Forse il senso ultimo di tutto, del male, della morte, della sofferenza, ci sarà svelato in un’altra dimensione, o forse anche no, ma non credo che questo tolga valore al nostro impegno, qua e ora, per un mondo migliore.
La speranza
Nell’insegnamento catechetico del passato l’oggetto della speranza era proiettato verso un’altra vita nella quale ci si aspettava di raggiungere quella felicità che era preclusa in questo mondo. Perciò le sofferenze di questa vita erano presentate come il prezzo da pagare per ottenere la beatitudine eterna. Oggi invece si è riscoperto il carattere «terreno» della speranza. Sulla linea dell’AT Gesù non annunziava la salvezza dopo la morte ma la venuta del regno di Dio come il compimento di tutta la storia umana. Nelle parabole della crescita egli ha sottolineato soprattutto l’azione di Dio che realizza il suo progetto a prescindere dall’iniziativa umana. D’altra parte però Gesù fa leva spesso sulla collaborazione umana mediante la quale il regno di Dio viene già anticipato nell’oggi. La speranza fa sorgere l’esigenza di una strategia per combattere le forze del male che dominano in questo mondo. Essa dà un senso anche alle sofferenze perché senza di esse non si può realizzare un vero miglioramento della società. D’altra parte non si può immaginare un processo lineare: bisogna mettere nel conto anche passi indietro e fallimenti che a volte aiutano a verificare e a migliorare la propria strategia. Soprattutto la speranza esige che ci si liberi dall’illusione di un successo immediato e che si sappia collaborare con tutti gli uomini e donne di buona volontà per raggiungere un obiettivo comune che vada al di là dei propri interessi personali e di gruppo. Infine bisogna ricordare che la speranza va di pari passo con la fede e con la carità. Si spera solo se si ha fede nella possibilità di un cambiamento e se c’è un vero amore per ogni essere umano e per tutto il creato. La fede in Dio dà un grande aiuto alla speranza, ma questa è una dotazione potenziale di cui tutti siamo provvisti e che dobbiamo riscoprire in noi stessi.