Tempo Ordinario B – 14 Domenica
La liturgia di questa domenica contiene una forte denunzia nei confronti di una religiosità basata sulla ricerca di prodigi e miracoli. Nel testo di Ezechiele, riportato nella prima lettura, gli israeliti sono condannati come una genia di ribelli. Il motivo non è detto, ma si tratta soprattutto di quella sottile idolatria che consiste nel ritenersi in diritto di ottenere i favori di Dio a prescindere dal proprio comportamento in campo etico.
Nel brano del vangelo si dice che i compaesani di Gesù non erano disposti ad accogliere il suo insegnamento perché trovavano un ostacolo («scandalo») nella sua origine, umile e nota a tutti. Di lui infatti sono ben noti la professione di falegname, il nome di sua madre e quello dei suoi fratelli; le sue sorelle poi vivono ancora nel villaggio. Ma il rifiuto dei nazaretani consisteva soprattutto nel fatto che essi, in quanto suoi compaesani, pensavano di avere un particolare diritto ai suoi miracoli. Gesù non accetta tale pretesa: le sue opere prodigiose infatti non solo compiute per soddisfare le attese egoistiche di qualcuno ma per mostrare la potenza guaritrice del regno di Dio accolto con fede. L’atteggiamento dei nazaretani s’inserisce così nel contesto della rottura verificatasi ad un certo punto tra Gesù e gli abitanti della Galilea: costoro, attratti in un primo momento dai suoi miracoli, si sono allontanati ben presto da lui, vedendo che non potevano usufruire a proprio piacimento del suo potere straordinario. Secondo Marco Gesù commenta l’atteggiamento dei suoi compaesani osservando che «un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (v. 4). Questo detto riguarda i rapporti del popolo di Israele con gli inviati di Dio (cfr. 2Cr 36,15-16). Nell’atteggiamento dei nazaretani Marco vede dunque adombrato il rifiuto che il giudaismo istituzionale ha opposto a Gesù e al movimento che nascerà da lui.
Nella seconda lettura Paolo mette in luce come nella sua debolezza si manifesti la potenza di Cristo. Come Gesù anche Paolo, diversamente da quanto si aspettavano i nazaretani, è convinto che Dio si manifesta non mediante grandi realizzazioni umane ma nel dono di sé che si attua nelle situazioni umili e quotidiane della vita.
Il rischio più grande di ogni persona religiosa è quello di volersi appropriare di Dio e di aspettarsi da lui segni miracolosi. Sia i profeti che Gesù hanno condannato la falsa convinzione di avere Dio dalla propria parte per una sorta di privilegio, a motivo del culto a lui prestato. Dio non si lascia comprare da nessuno, ma è vicino a ognuno di noi per sostenerci nel nostro impegno quoticiano per rendere un po’ migliore il nostro mondo.
Il culto della personalità
Cosa c’è di più gratificante che attribuire il compito di risolvere i nostri problemi all’uomo della provvidenza? Questi può essere il politico di turno, il santo taumaturgo, Gesù Cristo o persino Dio stesso. E allora ecco la gara per propiziarsi le grazie del santo protettore: raccomandazioni, voto di scambio, manifestazioni di sostegno e, in campo religioso, preghiere, riti propiziatori, voti, donazioni. E guai se il potente non risponde alle attese! Il castigo non tarda a venire, magari con un cambio di casacca o un arrabbiato ateismo.
Dopo tanti secoli non sappiamo più che tipo di miracoli Gesù ha compiuto. Gli evangelisti riportano solo alcuni dei racconti che circolavano al loro tempo. Sicuramente aveva delle doti speciali di guaritore. Ma una cosa è certa: a lui il ruolo di salvatore della patria non è mai piaciuto. Se ha fatto delle opere che allora apparivano straordinarie, il suo scopo non era certo quello di risolvere il problema della sanità nazionale, ma di fare dei segni che manifestassero la novità del regno di Dio di cui annunziava la venuta. Perciò richiedeva la fede, non nei suoi poteri straordinari, ma in questo regno ideale per cui valeva la pena di battersi.
Purtroppo i nazaretani non la pensavano così. Chi più di loro poteva attendersi un trattamento di favore da parte di un compaesano dotato di tanto potere? Ma Gesù non è stato al gioco, e ne ha subito le conseguenze. Ciò vale ancora oggi. La vera fede non consiste nell’aspettarsi miracoli, ma nel fare miracoli per il bene comune. E per questo non è necessario avere grandi mezzi o talenti. Anzi! Ha ragione Paolo quando afferma: «La forza si manifesta pienamente nella debolezza».
Che dire allora delle tante opere di carità svolte da singoli cristiani o da associazioni da loro ispirate? Si tratta spesso di autentici miracoli che preannunziano la venuta del regno di Dio. Purtroppo non è sempre così. Ma che ne sarà della chiesa se non saprà fare del suo culto l’espressione della comunione fraterna, segno del regno di Dio e miracolo per eccellenza, causa ispiratrice di numerosi altri miracoli?
Ho letto sul Corriere di questa mattina una bella intervista al professor Gianpaolo Donzelli, per molti anni primario della terapia intensiva dell’ospedale Meyer di Firenze. L’intervistatore pone ad un certo punto la domanda: “Come vivono la malattia i bambini?” e aggiunge: “Manuela Belingardi, volontaria allo IEO di Milano, mi rispose così – Urlano. Impazzivo nel sentirli piangere e implorare di non fargli l’iniezione. Il professor Veronesi, a forza di veder soffrire, è diventato ateo. Il dolore ti fa pensare al vuoto- “. Il professor Donzelli risponde: “Il pensiero si ferma, non riesce ad andare oltre. Posso solo affidare queste creature al Signore.”
Risposte diverse di due persone che hanno speso la vita nel combattere le più gravi malattie. I genitori dei bambini chiedono invece miracoli, interventi superiori capaci di vincere la malattia e di tramutare il dolore di un bambino in salute e vita; dare al Signore questa “possibilità” forse è per loro l’unico modo per non cedere all’ateismo e alla disperazione.