Tempo Ordinario C – 18. Domenica
La liturgia di questa domenica propone alla nostra riflessine il tema dell’ingordigia e dei danni che provoca nella società. Nella prima lettura un autore poco conosciuto, il Qoelet, afferma che tutte le cose di questo mondo sono vanità, cioè un soffio che si dissolve nel nulla. In questo testo si mette in discussione non l’onesto impegno per guadagnarsi la propria esistenza, ma l’affannarsi per avere sempre di più, senza rendersi conto che un giorno si dovrà lasciare tutto.
Nel brano del vangelo, Gesù indica nell’ingordigia il male più grande che colpisce la persona e la società. Egli sottolinea la stoltezza del voler accumulare sempre più beni materiali, soldi o cose. A che cosa servono? Molte volte ci si giustifica pensando di avere un giorno la possibilità di godersi in pace i propri beni. Ma non bisogna farsi illusioni. Il campanello suona quando meno ci si aspetta. Nessuno può portarsi nell’altro mondo ciò che ha accumulato quaggiù. Questo vale anche per i pochi miliardari, che sottraggono alla collettività quantità enormi di danaro. Quando uno si arricchisce oltre un certo limite non può essere onesto. Ma anche chi non si arricchisce deve farsi il suo esame di coscienza, perché la cupidigia può annidarsi anche nel cuore di chi non possiede grandi ricchezze. Tutto dipende dalla gerarchia di valori a cui facciamo riferimento.
Nella seconda lettura si parla della nuova vita che Gesù ci ha acquistato. Non si tratta in primo piano della vita dopo la morte, ma di un nuovo modo di essere che si attua a partire da quaggiù. Abbiamo il privilegio di essere risorti con Cristo. Ma dobbiamo mettere tutto il nostro impegno per essere veramente con lui, imparando a fare un uso appropriato delle cose materiali: l’ingodigia è già in se stessa un’idolatria.
La crisi attuale, in tutti i suoi diversi aspetti, finirà quando si saprà vincere l’ingordigia che affligge l’umanità. Ciò esige che si correggano i meccanismi del mercato, in modo che non si creino sperequazioni eccessive tra cittadini e tra nazioni. Ma a monte è necessario che noi, come individui e come società, scegliamo la strada della sobrietà e della condivisione, invece di quella del profitto e dei consumi. Per arrivare a ciò non sono sufficienti i meccanismi economici. Ci vuole una vera conversione del cuore.
È difficile non essere d’accordo con quanto Gesù insegna nel vangelo di questa domenica raccontando la parabola di quell’uomo che si è arricchito, pensa ormai di godersi la vita, ma proprio allora è portato via da un infarto. A che cosa gli serve tutto quello che ha messo da parte? In teoria, naturalmente, Gesù ha ragione. Ma in pratica come stanno le cose? Ho fatto una breve carrellata in internet dove ho trovato dei dati che mi hanno sconvolto. Non sono sicuro che siano attendibili, ma credo che grosso modo corrispondano alla realtà. L’Italia ha un debito pubblico di 2.756 miliardi di Euro i cui interessi costano sui 62.800 milioni di Euro all’anno. Gli italiani hanno in banca circa 10.000 miliardi. L’evasione fiscale ammonta a 103 miliardi di Euro ogni anno. Nel 2021 la pressione fiscale ha raggiunto il 43,5 per cento, una delle più alte in Europa. La povertà assoluta tocca 1,9 milioni di famiglie (7,5%) cioè 5,6 milioni di persone (9,4%), tra cui 1,4 milioni di minori (14,2%). Per mettere un po’ in sesto questo paese si spera ormai solo nei 235 miliardi del pnrr. Non so valutare questi dati ma ho l’impressione di vivere in un Paese in cui predomina l’egoismo individuale e di gruppo, in cui si pretende ma non si è disposti a dare il dovuto e nel quale chi sta bene si disinteressa dei poveri di casa sua, figuriamoci di quelli fuori della porta di casa. E poi ogni giorno si sentono lamentele sul fatto che mancano soldi per la sanità, la scuola, i tribunali, la tutela del territorio, l’accoglienza dei migranti ecc. Naturalmente c’è tanto volontariato, che può lenire molte piaghe ma non riparare il male strutturale che affligge il Paese. Concludo chiedendomi che cosa ci suggerisce in questa situazione la parabola del vangelo di oggi. Che senso ha la religione se non incide a monte sui meccanismi che generano questa realtà?