Tempo Ordinario A – 19. Domenica
La prima lettura indica come tema della liturgia di questa domenica la liberazione che Dio conferisce al suo popolo. Elia ha appena dimostrato che yhwhè l’unico vero Dio e ha messo a morte i quattrocentocinquanta profeti di Baal. Questo gesto provoca la reazione della regina Gezabele che lo cerca per metterlo a morte. Elia, intimorito, fugge nel deserto e, al termine di quaranta giorni, giunge al monte Oreb, cioè il Sinai, dove Mosè aveva concluso l’alleanza con yhwh. Solo ripercorrendo il cammino fatto dal popolo nel deserto il profeta si incontra con il suo Dio, il quale si rivela non nei fenomeni atmosferici ma nel «sussurro di una brezza leggera», letteralmente «nel sussurro di un silenzio leggero». Dio si incontra non all’esterno ma rientrando in se stessi e ascoltando la voce silenziosa della propria coscienza.
Nel vangelo viene descritta una strana scena simbolica: Gesù che cammina sulle acque del lago in tempesta. Questa scena deve essere interpretata in riferimento al passaggio del mar Rosso, da parte degli israeliti. Su questo sfondo essa significa la vittoria di Gesù sulle potenze del male che, secondo la mentalità biblica, si annidavano nelle profondità dei mari. Queste potenze erano spesso identificate con i grandi imperi dell’antichità, un tempo l’Egitto e ora l’impero romano. Gesù dimostra quindi di essere più potente di loro. In un primo momento i discepoli non lo riconoscono perché hanno paura. Pietro vorrebbe essere associato a Gesù, ma poi ha paura e comincia a sprofondare nell’acqua: come gli israeliti che nel deserto mormorano contro Dio, anche Pietro, di fronte alle difficoltà, ha paura e chiede aiuto. Ma Gesù, come un tempo Dio aveva fatto con gli israeliti, lo prende per mano e lo riporta sulla barca. Solo allora il mare si calma e i discepoli con Gesù giungono a riva.
Nella seconda lettura Paolo esprime un amore così grande per i suoi connazionali da voler diventare lui stesso «anatema», cioè separato da Cristo, perché essi possano essere salvati. Paolo non vuole salvarsi da solo perché sa che la salvezza riguarda anzitutto il popolo, è un valore comunitario. Anche ai suoi connazionali però, nonostante tutti i loro privilegi, è richiesto un passo personale, che consiste nella fede in quei valori fondamentali che sono parte essenziale del messaggio di Gesù.
La liberazione è lo scopo a cui tende tutto il discorso biblico. Essa non consiste in primo luogo nel non essere soggetti a potenze straniere o nel possesso di beni materiali o intellettuali, ma nel saper superare il proprio io e nel mettersi spontaneamente alla ricerca di un bene più grande che riguarda i propri simili e l’ambiente in cui si vive. Il benessere in tutte le sue manifestazioni viene di conseguenza. La liberazione così intesa si attua mediante un percorso lungo e impegnativo, irto di ostacoli e difficoltà. In questo cammino è di grande aiuto la fede in una Realtà superiore che dà senso alla propria ricerca e coraggio per superare la tentazione di ritirarsi nel proprio io. Per il cristiano questa Realtà misteriosa si manifesta nella persona di Gesù. Inoltre questo percorso deve essere condiviso con altri. Ciò fa sì che la meta a cui si tende sia già anticipata nella solidarietà che si crea fra di loro.
Una fede che salva
A chi non piacerebbe poter camminare sulle acque del mare in tempesta così, leggermente, senza sprofondare nell’abisso? Pietro ci ha provato, ma quasi andava a fondo perché ha avuto paura. Per sua fortuna qualcuno gli ha dato una mano e si è salvato. Anche noi abbiamo a volte la sensazione di camminare sulle acque, non certo quelle del mare ma quelle ugualmente tumultuose della vita. Sembra che tutto vada bene: il lavoro, la famiglia, le amicizie. Poi, in un attimo, capita qualcosa di inatteso e allora si ha l’impressione di precipitare in un abisso senza fondo. E nessuno è lì, pronto a darci una mano. Sono momenti in cui si capisce che cosa significa essere su un barcone che va a picco nel Mediterraneo, portando con sé una, tante vite umane. A meno che non venga un aiuto tanto atteso quanto insperato!
Per giungere al monte di Dio Elia non ha dovuto camminare sulle acque o navigare su un barcone, ma ha camminato per quaranta giorni nel deserto. Anche questa è una prova dolorosa a cui sono sottoposti i migranti provenienti dall’Africa. Elia ha avuto la fortuna di incontrare un angelo che gli ha fatto trovare pane e acqua e, al tempo stesso, gli ha indicato una meta da raggiungere. Non sempre ai migranti capita questa fortuna; e neppure a tanti di noi che vagano nel deserto di questa vita, nella solitudine e nella mancanza di una meta a cui tendere.
Le letture sembrano volerci dire che nella tragedie della vita la fede può darci un aiuto insostituibile. Ma quale fede? Non certo quella che ci fa aspettare un intervento miracoloso dall’alto, capace di risolvere i nostri problemi e di preservarci da situazioni impossibili. È ingenuo pensare che ci sia qualcuno lassù che diriga a nostro piacere gli eventi di questo mondo.
La fede vera è invece quella che ci sa indicare una meta verso cui camminare e che ci fa afferrare la mano tesa per salvarci. Il monte di Dio è il simbolo di un Bene da ricercare al di là dei nostri piccoli interessi personali e la mano di Gesù è quella di una comunità di fratelli e di sorella coi quali condividere un cammino spesso difficile e irto di ostacoli. Una fede impegnata. Se no, che fede è?