L’elezione come responsabilità
Il tema di questa liturgia è indicato nella prima lettura, nella quale si parla dell’elezione di Israele. Il profeta Isaia presenta il rapporto tra Dio e il suo popolo con l’immagine del rapporto tra un contadino e la sua vigna, che a sua volta è immagine del rapporto tra lo sposo e la sua sposa. Dio ama il suo popolo come uno sposo ama la sua sposa e lo riempie dei suoi doni, ma questo popolo è infedele perciò attira su di sé un severo castigo. Elezione quindi non significa privilegio ma responsabilità.
Nella parabola dei vignaioli omicidi Gesù riprende il tema biblico della vigna, in quanto simbolo dell’elezione di Israele come popolo di Dio. I vignaioli sono i capi che rappresentano tutto il popolo. Essi sono condannati perché si ritengono eletti, privilegiati, ma non sono all’altezza di questa loro responsabilità, anzi eliminano coloro che li richiamano ai loro doveri. Con questa parabola Gesù descrive in anticipo la tragedia del popolo giudaico che rifiuta il suo Messia e va incontro a un doloroso destino. I primi cristiani hanno interpretato la parabola in riferimento alla morte e alla risurrezione di Gesù: questi è rappresentato, a motivo della sua morte in croce, come la pietra scartata dai costruttori che però, in forza della sua risurrezione, è diventato testata d’angolo, cioè il fondamento di un nuovo edificio spirituale che è la comunità dei suoi discepoli. Inoltre per i primi cristiani il privilegio dell’elezione, perso dal popolo giudaico, sarebbe stato trasferito alla Chiesa, nuovo popolo di Dio, radunato da Gesù risorto. Ma in realtà Gesù mette in discussione l’idea stessa che esista un popolo eletto, dotato di particolari privilegi. Gesù raccoglie dei discepoli e assegna loro il compito di annunziare con lui la venuta del regno di Dio. Ma a loro non promette nessun privilegio. Per lui il regno di Dio è aperto a tutti, senza privilegi o esclusioni, e in esso si entra non perché si appartiene a un popolo o a una Chiesa, ma perché si portano i frutti che Dio si aspetta da ogni essere umano.
Questi frutti sono elencati nella seconda lettura. In essa Paolo esorta i filippesi ad accettare «tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode». È questo un programma di vita valido per ogni essere umano. Solo chi produce questi frutti entra nel regno di Dio, a qualunque popolo o religione appartenga.
Da tempi immemorabili si afferma che la Chiesa è il popolo eletto, a cui bisogna appartenere per ottenere la salvezza. Gesù non è di questo parere. Egli infatti ha assegnato ai suoi discepoli non una condizione di privilegio ma una responsabilità pesante, anche se gioiosa. Il concetto di elezione deve dunque essere superato. Ciò non ha però l’effetto di togliere importanza della Chiesa. Essa ha un ruolo fondamentale nella crescita spirituale e materiale dell’umanità, che però non deve essere concepito in modo esclusivo. La Chiesa deve essere considerata non come l’unica religione che conferisce la salvezza, ma come una famiglia di discepoli che rendono presente nella storia l’insegnamento di Gesù. L’appartenere a essa non è un’assicurazione per l’aldilà ma la fonte di un impegno per realizzare un mondo migliore, in collaborazione con tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
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