Tempo ordinario C – 24. Domenica
La prima lettura presenta un Dio adirato e vendicativo, che vorrebbe distruggere il popolo perché ha adorato un vitello d’oro; egli si placa solo in seguito all’intercessione di Mosè che gli spiega tutti i motivi per cui deve perdonare il popolo peccatore. È un racconto che sa molto di mitologia in quanto descrive il «peccato originale» di Israele e le sue conseguenze: lo scopo è, da una parte, quello di affermare il rapporto indissolubile che lega Dio al popolo e, dall’altro, di mettere il popolo davanti alla responsabilità che esso comporta. Dio non distrugge il popolo, ma riserva ai peccatori una terribile punizione. Questa immagine di un Dio che si lega a un popolo, lo perdona e poi lo castiga, è piuttosto inquietante. A Dio viene attribuito quello che era il comportamento di un grande re dell’antichità, magnanimo e generoso, ma a cui bisognava stare sottomessi a scanso di terribili conseguenze. È questa la religione di Mosè.
Nelle due parabole del vangelo (omettiamo quella del figliol prodigo che si legge già in quaresima) non si parla più di peccato, di castigo e di misericordia. Il pastore che ha perduto una pecora e la donna che ha smarrito la moneta fanno ciò che farebbe ciascuno di noi: chiunque non si rassegna facilmente a perdere una cosa che gli è cara, anche se non di grande valore e si rallegra quando la ritrova. Il paradosso appare nella prima parabola, in quanto il pastore lascia nel deserto le altre novantanove, con il rischio che, per recuperarne una, perda tutte le altre. Il significato è chiaro: la misericordia di Dio si riversa non sul popolo o sulla massa ma su ciascuno in modo personale, a prescindere dai suoi meriti e dal suo stato sociale. È questa la religione di Gesù. Luca però sottolinea che le due parabole sono state pronunziate da Gesù perché gli scribi e i farisei lo accusavano di accogliere i peccatori e di mangiare con loro. I cosiddetti peccatori non erano delinquenti ma semplicemente persone che non si attenevano alla legge mosaica. Ma ascoltavano Gesù e quindi, pur con tutti i loro limiti, erano alla ricerca della verità. Secondo Luca dunque Gesù vuole sottolineare che Dio non si accontenta di persone che si adattano a esercitare gesti rituali o ad accettare formule precostituite, ma gradisce coloro che, pur essendosi allontanati dalla pratica religiosa, vogliono capire il senso della vita e il rapporto con l’Assoluto.
Nella seconda lettura, secondo l’autore di questo testo, Paolo dichiara di essere stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento, ma di avere ottenuto misericordia perché agiva per ignoranza, lontano dalla fede. Egli è presentato così come il modello del peccatore pentito che è diventato, per grazia di Dio, un apostolo. Ma in realtà Paolo non era un peccatore ma un giudeo devoto, preoccupato delle sue pratiche religiose, che, dopo aver incontrato Gesù, ha capito che Dio vuole non un’obbedienza formale alla legge ma il cuore delle persone e si è sentito chiamato ad annunziare questa buona notizia in tutto il mondo.
La religione degli scribi e dei farisei è ancora viva nel profondo del nostro cuore e determina a volte giudizi severi nei confronti di chi sbaglia. Che cosa comporta per noi accogliere la religione di Gesù?
Questa lettura della parabola mi apre il cuore e il cervello. Va al di là di un consueto proselitismo, smonta le sicurezze di chi si erge giudice e vuole salvare chi si è perduto…..ma cosa sappiamo noi di chi crediamo si sia perduto?
Condivido in pieno la premura, l’amore che Gesù mostra per chi si è ” smarrito ”
Sta a ciascuno di noi avvicinare chi è smarrito, perché non condivide più la dottrina della Chiesa, chi non si sente compreso…..
Oggi il pastore della parabola si troverebbe di fronte a una sfida molto più impegnativa: quella di dover lasciare nel deserto l’unica pecorella rimasta per andare a cercare le altre novantanove che si sono smarrite. Lo smarrimento non è necessariamente il risultato di un rifiuto o di una ribellione, cioè di un peccato. Molti lasciano la pratica religiosa semplicemente perché non ne capiscono più il significato, la vedono come un inutile, forse anche dannoso, insieme di rituali ripetitivi, di dottrine astruse, di regole antiquate. Forse sono trascinati dal materialismo pratico della nostra società, sono diventati indifferenti alle cose spirituali, oppure cercano altrove una spiritualità che non trovano più nella chiesa. Sono peccatori che devono essere riportati all’ovile? Non credo. Se guardiano bene, il livello di vita morale, i valori, le scelte politiche ed economiche di chi è fuori non sono molto diversi da quelli di chi è rimasto dentro. E allora non vale la pena di riportarli all’ovile. Non cambierebbe nulla. Invece dobbiamo chiederci con sincerità che cosa ci sia di nuovo per noi in quella «buona notizia» che chiamiamo vangelo. Secondo me oggi il problema di tanta gente, anche e specialmente nelle nostre città sovraffollate, è la solitudine che in tante situazioni diventa veramente drammatica. Non solo per tanti immigrati o senza fissa dimora, che noi abbandoniamo in una stazione ferroviaria, ma anche per tanti giovani o anziani che non hanno più nessuno con cui condividere la loro esistenza. La loro salvezza potrebbe essere una vera proposta di vita comunitaria. Non un ovile in cui essere stipati, ma un ambito in cui poter stabilire rapporti nuovi, in cui fare esperienza di comunicazione, di amicizia, di solidarietà. Certo non è facile, ma la buona notizia consiste proprio nel dimostrare che ciò è possibile, che Gesù è capace ancora oggi di fare questo miracolo. In caso contrario, temo proprio che anche l’unica pecorella rimasta se ne vada e il pastore decida anche lui di cambiare mestiere.