Avvento A – 3. Domenica
Le letture di questa domenica affrontano il tema dei gesti straordinari compiuti da Gesù durante il suo ministero. Nella prima di esse, pur essendo presa dalla prima parte del libro di Isaia, si parla già del ritorno dei giudei dall’esilio babilonese. Per gli esuli è stata questa una svolta epocale. Si trattava di rifare il tessuto sociale deteriorato da decenni di isolamento e di sofferenza. Le varie malattie che vengono sanate, come la sordità, la mancanza della parola, l’incapacità di camminare, la fiacchezza, sono metafore per indicare la mancanza di speranza, l’assenza di una prospettiva comune, il prevalere dell’egoismo personale. Tutti si mettono in cammino verso una meta comune. Dio garantisce a questo popolo una rinascita, indicata simbolicamente da una grande strada che si apre nel deserto, tra alberi e corsi d’acqua, dove muti, sordi, zoppi corrono tutti verso una meta comune. Ma c’è anche l’accenno alla vendetta: mentre salva i suoi, Dio punisce severamente i loro oppressori.
Nel vangelo si racconta che Giovanni il Battista, dopo avere annunziato la venuta di Gesù, è caduto nell’angoscia e nel dubbio. Giovanni è ancora, come dirà Gesù stesso, un uomo dell’Antico Testamento. Egli infatti aveva preannunziato la venuta del Messia, ma pensava, secondo quanto annunziava Isaia, che egli avrebbe fatto giustizia, premiando i buoni ma castigando severamente i peccatori. E infatti Giovanni invitava tutti alla conversione per evitare il castigo imminente. Perciò il precursore, venuto a sapere che Gesù invece accoglie i peccatori e guarisce i malati, invia i suoi discepoli da lui per chiedergli: «Sei tu quello che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Ma Gesù mostra con chiarezza che il regno di Dio non viene mediante le minacce, e tanto meno mediante l’uso della violenza. Esso si attua nelle guarigioni miracolose con le quali Dio manifesta il suo amore per tutto il suo popolo. Dio non è un giudice severo ma un padre misericordioso, che esercita la sua potenza nell’attuare la riconciliazione e la fraternità. Gesù loda Giovanni come un uomo tutto d’un pezzo, un vero profeta. Ma osserva che egli è ancora immerso nel passato. Con Gesù si volta pagina e chi sa accogliere il Vangelo della misericordia di Dio è più grande di lui, anche se si tratta di una persona piccola, cioè debole e limitata.
Nella seconda lettura l’autore dello scritto che porta il nome di Giacomo, fratello di Gesù, richiama ai suoi lettori il tema del ritorno del Signore. Egli li rassicura perché la sua venuta è certa come quella delle piogge primaverili e autunnali. E li esorta nel frattempo ad avere pazienza e a non lamentarsi gli uni degli altri: il giudizio infatti spetta al Signore, non a noi. In questa prospettiva raccomanda loro di imitare la sopportazione e la costanza dei profeti: non un atteggiamento di accettazione passiva o di protesta sterile, ma un impegno attivo per migliorare questo mondo.
L’evangelizzazione a cui sono chiamati i discepoli di Gesù non consiste nel giudicare ma nel risanare. La disoccupazione, l’impoverimento, le ingiustizie sociali non devono produrre un adattamento rassegnato e neppure una protesta sterile ma piuttosto suscitare l’impegno costante per risanare le ferite, sia quelle che ciascuno porta in sé, sia quelle che affliggono tutta la società.
Fede e politica
Forse Gesù non riteneva che in tempi brevi il regno di Dio avrebbe soppiantato l’impero di Cesare. Ma certo pensava a un evento che avrebbe cambiato radicalmente la storia di questo mondo. Lui personalmente non ha mai cessato di operare in conformità al nuovo mondo che annunziava e ha invitato i suoi discepoli a fare altrettanto. Soprattutto ha chiesto loro di convertirsi, cioè di cambiare mentalità, per sintonizzarsi con la realtà che stava per venire.
Forse qualcuno di quelli che gli giravano intorno pensava di mettere mano alle armi. Ma Gesù non la pensava così. Sapeva che è facile radunare la folla magari con uno slogan che riassume le aspettative popolari, ma poi tutto finisce nel nulla. Bisognava educare la gente in modo da farle scoprire uno scopo per il quale impegnare tutta la propria vita. Per questo non si è limitato a insegnare e a guarire i malati, ma si è esposto personalmente, di fronte alle autorità del suo tempo, per mostrare che la ricerca del bene comune vale più di qualsiasi privilegio di casta o di partito. E i suoi nemici gliel’hanno fatta pagare cara. Ma la sua scelta non è stata vana. Egli ha indicato una meta e ha tracciato la strada per raggiungerla.
La meta è quella di un mondo pacificato in cui a tutti, anche agli zoppi, ai sordomuti, ai ciechi è riconosciuta parità di diritti. La strada è quella di una politica che consiste nella ricerca non di vantaggi o privilegi personali ma del bene comune. Non c’è felicità che sia veramente tale se non è condivisa da tutti. Pur senza usare questo termine, ha detto che ogni essere umano deve essere «politico», cioè impegnato fino in fondo per il bene della città, la polis di cui parlavano i greci. Solo una società politicamente attiva può esprimere dei veri statisti, capaci di avere sogni e visioni e di guidare il popolo verso la loro realizzazione. Se no, i capi saranno imposti dall’alto, e questo sarà la fine di ogni sogno.
Ma come si fa a mantenere viva la passione per il bene comune? La strada è una sola: aggregarsi, parlare, scambiare idee e progetti, aiutarsi vicendevolmente a tenere alta la guardia. In altre parole ci vuole una fede condivisa. In questo i credenti sono i meglio attrezzati. A meno però che non si lascino condizionare da una struttura verticale, che produce più servizi religiosi che sogni da attuare, che anestetizza piuttosto che animare.
Mi sembrano molto attualizzabili le letture di questa domenica: nei giudei che tornano dall’esilio e si mettono in cammino lungo una strada comune, vedo l’impegno di uomini e donne, oggi, che vogliono uscire da una situazione di isolamento, di egoismo a volte e di disimpegno, per progettare insieme strade nuove che creino unità e progettualità condivisa.
Se facciamo nostre le parole pronunciate da Liliana Segre al termine della manifestazione dei sindaci:…” Stassera non c’è indifferenza, c’è un’atmosfera di festa. Cancelliamo tutti assieme le parole di odio e di indifferenza, e abbracciamoci in una catena umana che provi empatia e amore nel profondo del nostro essere uomini e donne giusti, forti, liberi nelle nostre scelte di vita”…. vuol dire che abbiamo capito che il regno di Dio, cui si riferisce Gesù nel vangelo di Matteo, significa abbandonare minacce, paura, violenza e progettare solo azioni di amore e di accoglienza, di ascolto dell’altro anche “diverso”.
E’ certo una strada lunga che richiede di essere pazienti, di saper aspettare come il contadino che “la terra produca i suoi frutti preziosi”, di saper aspettare “le piogge di primavera e le piogge d’autunno”. Dobbiamo essere pazienti, ma non abbassare la guardia e l’impegno: quella pioggia, per coesistere in pace e democraticamente, forse siamo noi.