Autore: Alessandro Sacchi

nato ad Alessandria classe 1937 laureato in scienze bibliche

Tempo Ordinario A – 24. Domenica

Un perdono creativo

Il tema di questa liturgia è indicato dalla prima lettura. In essa si richiama il fatto che Dio vuole il perdono e non esaudisce coloro che invece mantengono il rancore e praticano l’odio. L’obbedienza a Dio si manifesta soprattutto nel perdono. È questa l’esigenza fondamentale dell’alleanza tra Dio e Israele e quindi di qualsiasi religione. Sembra però che il perdono di Dio sia subordinato a quello dell’uomo: Dio perdona a condizione che l’uomo per primo sia disposto a perdonare. Il salmo responsoriale mette in luce invece la misericordia di Dio che non ammette condizioni.

Il tema del perdono viene ripreso nel brano del vangelo in cui è riportata la parabola del servo spietato. Questa parabola era forse originariamente autonoma e Matteo ne ha fatto un’illustrazione del principio secondo cui bisogna perdonare settantasette volte al giorno, cioè sempre. Presa in sé, la parabola non riguarda però direttamente il perdono ma il regno di Dio e i rapporti che si instaurano al suo interno. Lo sfondo è quello di una società profondamente ingiusta nella quale esiste un divario enorme tra pochi ricchissimi e una massa di poveri e diseredati. In questa società i ricchi si appropriano di enormi capitali, sottraendoli alle classi più povere, le quali sono sottoposte a vessazioni crudeli e devastanti. In questa prospettiva la parabola vuole dire che Dio non accetta questa situazione, che essa non è compatibile con il suo regno così come è annunziato da Gesù. Perciò il regno di Dio esige che i credenti si impegnino fin d’ora per una società più giusta e solidale. Nel contesto attuale in cui è inserita, la parabola assume però un significato più profondo: se vogliamo anticipare nell’oggi il regno di Dio dobbiamo perdonare chi ci offende come Dio perdona ognuno di noi. Dio non aspetta che noi perdoniamo chi ci offende per donarci il suo perdono, ma è il suo perdono che ci dà la forza di perdonare. Perdonando chi ci offende entriamo nella logica di Dio e così facendo anticipiamo la venuta del suo regno. Non è sufficiente perdonare chi ce lo chiede e a determinate condizioni. Infatti, senza un perdono incodizionato è impossibile creare quel tessuto di rapporti nuovi che caratterizzano un mondo giusto e solidale. Per chi si pone in questa lunghezza d’onda, cadono gli interessi personali ed emerge in primo piano la ricerca di un bene che riguarda tutto l’uomo e tutti gli uomini. Di conseguenza ciò che conta non è più l’offesa ricevuta ma la possibilità di coinvolgere anche colui che sbaglia in un processo globale di riconciliazione e di fraternità. È questo il vero significato e la radice del perdono.

Nella seconda lettura ci è data la chiave per capire la fonte del perdono cristiano: «Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore». Ciò che conta non è la nostra vita fisica, con tutto quello che comporta, ma l’essere con il Signore e condividere con lui una nuova vita, che è quella dell’amore. Questa partecipazione alla vita di Gesù non deve però essere intesa in modo individualistico e intimistico, ma come un impegno a lottare con lui e con tutti gli uomini e donne di buona volontà perché venga un mondo migliore.

Il perdono non è facile, specialmente quando si è oggetto di gravi ingiustizie, come per un genitore l’uccisione del proprio figlio. Siamo ancora molto lontani dal regno di Dio annunziato da Gesù. Ma è lì che dobbiamo tendere. La miglior difesa di noi stessi, dei nostri diritti, della nostra sicurezza non sono l’intervento della giustizia degli uomini o di Dio, ma l’impegno costante per realizzare un mondo migliore, sulla linea di quanto indicato dalle Scritture. Solo così il perdono diventa creativo, segna l’inizio di una vita nuova.

Tempo Ordinario A – 23. Domenica

Un amore responsabile

La prima lettura indica come tema della liturgia la responsabilità del profeta nei confronti di tutto il popolo e di ciascuno dei suoi membri. Egli è come una sentinella che deve avvertire la città del pericolo che si avvicina. È possibile che tutto il popolo o qualcuno dei suoi membri, magari chi ha responsabilità di governo, vada fuori strada e il profeta lo venga a sapere da Dio stesso oppure dalla sua coscienza illuminata dalla fede. Il suo compito è allora quello di intervenire e di segnalare il pericolo che si avvicina: se lo fa, lui è salvo, qualunque sia la reazione degli interessati, altrimenti sarà il primo a pagarne le conseguenze. Il compito del profeta è essenziale per il buon funzionamento di una comunità: se il profeta viene meno alla sua missione o non viene ascoltato, la comunità si disgrega.

Nel brano del vangelo questo principio è applicato alla comunità cristiana. In esso si tratta direttamente della lite tra due membri della comunità, uno dei quali si sente oggetto di un’ingiustizia da parte dell’altro. Chi ritiene di aver ricevuto un torto potrebbe tacere, magari per compassione nei confronti di chi gliel’ha inflitto o per quieto vivere. Secondo Matteo Gesù disapprova questo atteggiamento. Chiudendo gli occhi sul torto ricevuto si pone la premessa di una ripetizione dell’abuso a danno di altre persone e di tutta la comunità. Perciò se il richiamo personale a chi ha sbagliato non ha effetto, alla fine è tutta la comunità che deve essere coinvolta e che deve dare un giudizio definitivo. I due detti riportati successivamente da Matteo, in questo particolare contesto mettono in luce due aspetti complementari del dovere di correggere chi sbaglia: da una parte la comunità deve prendere decisioni conformi alla volontà di Dio, al quale spetta in ultima analisi il compito di ratificarle; dall’altra essa deve agire in sintonia con l’insegnamento di Gesù, intorno al quale essa è convocata, specialmente nel contesto della preghiera comune.

Nella seconda lettura si parla di amore vicendevole. Questo amore deve essere rivolto alla ricerca del bene comune. Perciò è importante, quando si sente il dovere di intervenire nei confronti di un membro della comunità, chiedersi non solo qual è il bene in assoluto, ma qual è la decisione più valida anche per il bene di chi ha sbagliato.

Le parole attribuite da Matteo a Gesù non devono essere utilizzate come motivazione per delazioni e condanne che portano a emarginare certe persone solo perché hanno idee diverse dalle proprie. Tuttavia è importante che, quando si viene a conoscenza di abusi che si verificano in una parrocchia o in una comunità religiosa, si abbia il coraggio di parlarne, sia con l’interessato che con i responsabili della comunità. Anche un caso a prima vista puramente privato può essere sintomo di un malessere più profondo, che non deve essere sottovalutato. La prassi di insabbiare e nascondere, magari per timore dello scandalo, non serve per il bene della comunità e neppure per quello dei diretti interessati. 

Tempo Ordinario A – 22. Domenica

Il significato della sofferenza

La sofferenza è una realtà misteriosa, difficile da capire. La prima lettura presenta, con le sue stesse parole, l’esperienza che ne ha fatto uno dei grandi profeti, Geremia. Egli deve annunziare la rovina a un popolo ribelle, che lo considera come un profeta di malaugurio e perciò lo perseguita. Geremia ne è amareggiato al punto che vorrebbe tirarsi indietro, rinunziare alla sua missione. Ma non ci riesce perché la parola di Dio gli brucia dentro come un fuoco. Suo malgrado dovrà riconoscere che un compito così importante come quello che ha ricevuto richiede la disponibilità anche a una grande sofferenza.

Nel brano del vangelo si narra che anche Gesù è andato consapevolmente incontro alla sofferenza e alla morte. Nel contesto immediato non si dice quali sono stati i motivi che lo hanno messo su questa strada. Dalle sue parole traspare però che per lui si tratta di un percorso obbligato per portare a termine la sua missione. Quando egli ne parla con i suoi discepoli, Pietro reagisce rifiutando drasticamente questa prospettiva. La sua opposizione non deriva semplicemente dall’affetto verso il Maestro o dalla paura di fare la sua stessa fine. Pietro, seguendo Gesù, ha creduto che lui fosse il Messia e che la venuta del regno di Dio da lui annunziato fosse imminente. Per Gesù la sofferenza è parte essenziale di un impegno non violento per gli ultimi di questo mondo; Pietro invece pensa ai rischi di una sollevazione contro i nemici di Dio e del suo popolo, gli odiati romani. Gesù e Pietro sono uno accanto all’altro, aspettano la venuta del regno di Dio ma pensano che ciò si verificherà con modalità diverse. Con il suo rimprovero Gesù vuole fugare ogni equivoco e invita Pietro a mettersi al suo seguito non solo esternamente ma anche con il cuore. E subito dopo gli indica la via della sequela, che consiste nel rinnegare se stesso e nell’accettare la croce come espressione del dono di sé.

Nella seconda lettura Paolo invita i cristiani di Roma a offrirsi a Dio come sacrificio vivente. E li esorta a non conformarsi alla mentalità di questo mondo. Per seguire veramente Gesù dobbiamo distaccarci da tante cose, soprattutto da noi stessi e dai nostri interessi materiali. Dio non vuole preghiere meccaniche o gesti rituali ma il dono di sé che consiste nel fare la sua volontà, cioè nella ricerca del bene in tutti i suoi aspetti.

Di fronte alle situazioni ingarbugliate dei nostri giorni, il Vangelo ci richiama alla necessità di fare delle scelte radicali. Magari non si tratterà di mettere in pericolo la nostra vita, anche se a volte ciò può avvenire, come è capitato ai medici e agli infermieri che hanno curato i malati di coronavirus. Il più delle volte dovremo semplicemente chiederci da che parte stiamo, che cosa vogliamo raggiungere nella vita, a che cosa dobbiamo rinunziare per rendere migliore la nostra società.