Tempo Ordinario B – 24. Domenica
La liturgia di questa domenica affronta un tema che ci tocca da vicino: perché la sofferenza di Cristo? Perché la nostra sofferenza? La prima lettura riferisce l’esperienza di un personaggio biblico, chiamato Servo del Signore. Egli era un capo religioso della comunità dei giudei esuli in Babilonia: egli, proclamando l’imminente liberazione e il ritorno nella terra dei padri, ha toccato interessi e privilegi consolidati. In seguito a ciò ha subito una violenta persecuzione, alla quale ha reagito con metodi non violenti e alla fine è andato incontro alla morte. Ma così facendo ha avuto successo perché ha riaggregato il popolo e gli ha aperto la strada del ritorno.
Nel brano del vangelo è Gesù stesso che preannunzia la sua futura sofferenza. Egli affronta il problema alla lontana, chiedendo ai discepoli che cosa pensi di lui la gente. La risposta è generica: Giovanni Battista, Elia o un profeta dell’antichità che, secondo le attese dei giudei, sarebbe ritornato in vita negli ultimi tempi. Gesù non commenta, ma chiede ai discepoli che cosa ne pensino loro. A nome di tutti Pietro risponde: «Tu sei il Messia!». Questa volta Gesù dice a Pietro di tacere. Poi soggiunge: «Il Figlio dell’uomo dovrà molto soffrire, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare». Questa dichiarazione provoca uno scontro frontale con Pietro. Questi per primo rimprovera aspramente Gesù: per lui era chiaro che il Messia non poteva soffrire e morire ma doveva vincere con la forza i nemici del popolo. Gesù a sua volta lo rimprovera aspramente chiamandolo addirittura «satana», l’avversario, e accusandolo di pensare secondo gli uomini e non secondo Dio. Perciò Gesù invita Pietro, e con lui gli altri discepoli, a mettersi dietro a lui, alla sua scuola, senza pretendere di insegnargli quello che deve fare. Dal brano che segue risulta che il discepolo, se vuole veramente seguire il suo Maestro, deve impegnarsi fino in fondo nella ricerca del bene, e questo non è possibile se non a condizione di sofferenze e persecuzioni.
La seconda lettura, ricavata dalla lettera di Giacomo, va dritta al nodo del problema. La fede, se non è seguita dalle opere, è morta. E le opere della fede non sono in primo luogo quelle di carattere cultuale, come le messe e i sacramenti, e neppure l’adesione a dogmi o a principi morali, ma vestire chi è nudo e aiutare chi ha bisogno. E questo chiaramente ha un costo.
È difficile dire se Gesù abbia preannunziato così esplicitamente la sua prossima passione e morte seguita dalla risurrezione. Infatti, quando è venuto il momento, i discepoli ne erano totalmente all’oscuro. Ma è chiaro che Gesù sapeva molto bene, e i discepoli non potevano ignorarlo, che stare dalla parte dei poveri e degli esclusi significava mettersi contro i ricchi e i potenti, andando così incontro alla sofferenza e alla morte. Dio non può volere la sofferenza, anzi esige che si faccia di tutto per eliminarla. Noi però sappiamo che la sofferenza fa parte della condizione umana ed è inevitabile quando si decide di spendere la propria vita per gli altri. In questa prospettiva ogni sofferenza ha senso, anche quella che deriva dalle condizioni di salute proprie o dei propri cari, che possono diventare occasione di incontro e di amore.
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