Tempo Ordinario C – 26. Domenica
La liturgia di questa domenica mette in primo piano il tema delle disuguaglianze sociali. Nella prima lettura infatti viene descritta una classe dirigente che si disinteressa del bene comune: mentre sta per piombare sulla nazione una terribile sciagura, l’invasione assira, coloro che hanno in mano il potere banchettano spensierati. Ma saranno i primi a pagare con l’esilio la loro mancanza di responsabilità.
Nel brano del vangelo viene proposta la parabola del “ricco epulone”. In essa è descritta una situazione di disuguaglianza sociale che si ribalta alla morte dei due protagonisti: il ricco precipita nell’inferno e il povero viene portato nel seno di Abramo, cioè in «paradiso». Si crea così una compensazione che sembra giusta ma che suscita diversi interrogativi: mentre la situazione precedente era temporanea e circoscritta, quella dopo la morte è irreversibile e rivela una crudeltà ancora più grande della precedente. Ma è questo il significato della parabola? Direi di no. La parabola infatti si serve di una coreografia suggerita dal genere apocalittico per dire qualcosa riguardante non l’aldilà ma questo mondo. Essa non esalta la situazione dei miserabili ma esprime un severo giudizio nei confronti dei ricchi che godono dei loro beni senza curarsi delle sofferenze altrui. Essi hanno ricercato la felicità nel possesso delle ricchezze ma queste sono diventate per loro una droga che li ha storditi e li ha privati della loro umanità. Così facendo non hanno saputo dare un significato alla loro vita. Considerata dal punto di vista della fine, la loro vita appare come un fallimento. La parabola quindi denunzia l’inganno delle ricchezze e la necessità, per essere felici, di saper condividere quanto si è ottenuto dalla sorte o con l’industria personale. Dalle parole attribuite ad Abramo risulta inoltre che l’esigenza di una solidarietà fraterna rappresenta il messaggio essenziale della Legge e dei Profeti, cioè la sintesi della volontà di Dio espressa nelle Scritture.
Nella seconda lettura sono riportate alcune esortazioni che Paolo avrebbe rivolto al suo discepolo Timoteo e a tutta la comunità cristiana. In contrasto con la mentalità di questo mondo, i discepoli di Gesù sono invitati a tendere verso la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la pazienza e la mitezza. Praticando queste virtù, essi contribuiscono a costruire una società più giusta e solidale.
Noi viviamo in una società nella quale i beni di questo mondo sono sempre più concentrati nelle mani di pochi super ricchi mentre strati enormi della popolazione, non solo in altri continenti ma anche tra noi, sono ridotti alla povertà. Le enormi differenze tra ricchi e poveri rappresentano non un fattore di progresso sociale ed economico ma piuttosto una mina vagante che può esplodere da un momento all’altro causando danni irreparabili. Ma le letture dicono di più: la vera felicità non consiste nel possedere ma nel condividere. Coloro che possiedono potere, ricchezza e talenti non devono servirsene per i propri interessi ma per il bene comune.
La parabola del ricco epulone è una di quelle che maggiormente colpiscono il lettore. Ma che cosa vuol dire veramente? Che i ricchi andranno all’inferno e i poveri in paradiso? Non credo proprio. Penso che sia superfluo ricordare che un parabola non è un testo dottrinale ma un racconto a scopo didattico, che contiene un messaggio di carattere spirituale. Le vicende dei protagonisti e le situazioni in cui vengono a trovarsi non sono l’oggetto del messaggio ma il mezzo con cui esso viene formulato. Quindi la parabola non contiene una dichiarazione circa i candidati al paradiso o all’inferno, ma si serve di una credenza circa l’aldilà per dire qualcosa riguardo a situazioni ben precise di quaggiù. Allora vuole forse dire che è scandalosa la divisione dell’umanità in ricchi e poveri? Certo è scandalosa, soprattutto quando, come dice la prima lettura, i ricchi epuloni sono proprio quelli che dovrebbero difendere i diritti delle categorie più povere e discriminate. Questo però non è ancora il messaggio, ma un semplice presupposto facilmente condivisibile. La parabola vuole andare più in profondità. Dopo aver portato l’ascoltatore quasi a invidiare la situazione del ricco, degnando il povero di una semplice commiserazione, ecco che improvvisamente Gesù cambia le carte in tavola: sembra che il ricco sia felice, e invece è ancora più disperato di quel poveraccio rannicchiato all’ingresso della sua dimora. E qui veniamo al punto. Gesù non intende dire al ricco che deve rinunziare a qualcosa per saziare la fame del povero, magari senza mettere in discussione i suoi privilegi, in accordo con il falso comandamento di dare ai poveri il proprio superfluo. Vuole dire invece che la ricchezza, in un mondo in cui ancora tanti muoiono di fame, è un tradimento della propria umanità, che ha come conseguenza la perdita di senso, il fallimento, la desolazione più grande. È un aspetto che spesso ci sfugge: la vera sofferenza non è quella provocata dalla carenza di beni materiali ma quella che deriva da una vita senza senso, in cui l’eccesso di cibo è una droga non diversa da quelle che si comprano dagli spacciatori. E allora cosa fare? Gesù non lo dice. A ciascuno il compito di trarne le conclusioni.
Quando incontriamo per strada un immigrato, un disoccupato, una persona che manifesta un suo bisogno e ce ne facciamo carico ascoltandola, situando il suo problema e l’aiutiamo nelle sue esigenze immediate anche con denaro, non è ancora condivisione: è attenzione all’altro, apertura e sensibilità al suo problema … la condivisione credo debba essere una scelta culturale di fondo che orienta il nostro pensiero. La persona che ci sta davanti per noi non è solo quella persona, ma un fenomeno sociale, politico ed economico. La povertà che incontriamo ha le sue radici nella trasformazione del sistema economico sempre meno basato sull’economia reale e sempre più su quella finanziaria: un sistema economico fragile, vuoto che accentra pesantemente la ricchezza in mani di pochi Condividere è tener presenti queste trasformazioni, conoscerle e ostacolarle, con intelligenza e senso del bene comune, nelle nostre scelte di vita.