Tempo di Pasqua C – 3. Domenica
La liturgia di questa domenica ci suggerisce una riflessione sul tema dell’obbedienza. Nella prima lettura è Pietro che, davanti al sinedrio che gli proibisce di annunziare il Vangelo di Gesù, risponde che bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. È un’affermazione molto ardita perché Pietro sta parlando al sommo sacerdote, che era il più alto rappresentante di Dio in Israele. Pietro non è un ribelle, ma un ebreo praticante. Quindi ritiene che il credente abbia il diritto e il dovere di discernere se una direttiva, da chiunque venga, rispecchia il volere di Dio o no e quindi se sia giusto adeguarsi a essa. È questa la vera libertà, ma per ottenerla bisogna essere disposti a pagare un prezzo a volte molto alto.
Il brano del vangelo, aggiunto quando il libro era già completato, racconta in realtà non una seconda apparizione di Gesù, ma una tradizione diversa del suo primo incontro con i discepoli, focalizzato specialmente su Pietro e il discepolo che Gesù amava. Gesù si manifesta a loro secondo modalità che, simbolicamente, si riferiscono alla vita futura della Chiesa. Il pasto offerto da Gesù dopo la pesca miracolosa simboleggia l’eucaristia, che consiste nella memoria dell’ultima cena di Gesù: è lì che egli si manifesta mediante le Scritture e nel segno del pane e del vino e con il suo esempio muove il cuore dei fedeli. Sono significative soprattutto le parole che Gesù risorto dice a Pietro. Già il fatto che per tre volte l’Apostolo debba attestare il suo amore per Gesù richiama le tre volte in cui lo ha rinnegato. Ma si tratta di un fatto ormai superato. Per il futuro Gesù conferisce a Pietro il compito di essere pastore, ma le pecore non appartengono a lui bensì a Gesù. Egli quindi potrà e dovrà guidare il gregge non come piace a lui ma in nome e secondo le direttive del Maestro. Infine Pietro dovrà dare la vita per il gregge, come ha fatto Gesù: è questo il vero metodo di governo a cui devono adeguarsi i pastori.
Nella seconda lettura Gesù è rappresentato come un grande re, al quale sono dovuti onore e gloria. È una scena di grande maestà e potenza. Tutte le creature si prostrano davanti a lui. Ma egli è pur sempre l’agnello immolato, che guida coloro che credono in lui non con comandi a cui obbedire ma con la forza del suo esempio.
Per un discepolo di Gesù la prerogativa più importante è la libertà. Perciò il compito principale dei pastori non è quello di dare ordini o direttive, ma quello di promuovere la formazione della coscienza dei credenti perché raggiungano la libertà vera. Non è un buon metodo di governo quello di imporre con l’autorità divina una direttiva umana. Se ciò dovesse accadere, i credenti hanno tutto il diritto e il dovere di discernere qual è veramente la volontà di Dio. E a volte dovranno saper dire, come ha fatto Pietro, che bisogna obbedire a Dio e non agli uomini. Ciò vale nei confronti di qualsiasi autorità umana: a un ordine ingiusto bisogna saper dire di no, qualunque sia il prezzo da pagare.
Negli Atti degli apostoli Luca attribuisce a Pietro una frase molto forte: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini». Questo principio significa che in ogni circostanza l’uomo non deve adeguarsi semplicemente a fare quanto gli viene comandato ma deve fare sempre solo quanto Dio si aspetta da lui. Per sapere qual è la volontà di Dio l’unico strumento a disposizione è la propria coscienza che l’uomo può e deve interrogare accettando la luce che gli viene dai valori in cui crede, dall’esperienza, dal consiglio di persone più esperte, dalla valutazione delle conseguenze delle proprie scelte. Il fatto di obbedire a un ordine non esonera quindi la persona dall’assumere le conseguenze delle sue azioni. Ciò comporta quindi anche la possibilità e il dovere di fare obiezione di coscienza, che è tale proprio quando si disobbedisce consapevolmente a un ordine o a una legge ritenuta ingiusta che non ammette deroghe. Questo vale nei confronti di qualsiasi autorità, sia civile che religiosa. Quando Gesù dice a Pietro di pascere la sue pecorelle non gli conferisce il compito di gestirle in modo autoritario. Il «gregge» non appartiene a lui ma a Gesù che conosce le sue pecorelle, le chiama per nome e va in cerca della pecorella smarrita. Purtroppo una deriva della chiesa lungo i secoli è stata quella di elaborare un sistema di governo gerarchico e patriarcale, secondo cui dall’alto viene stabilito ciò che bisogna credere e ciò che bisogna fare nei campi più cruciali della propria esistenza. Oggi si parla di sinodalità, che significa camminare insieme. Ciò comporta non un semplice intervento cosmetico ma un radicale cambiamento strutturale per cui il primo posto non viene dato ai vertici ma alla comunità che si costruisce su una base di parità tra tutti i suoi membri e sulla interattività di diversi ministeri. Il presidente (il presbitero) quindi deve essere designato con il consenso dei membri della comunità; il suo compito è quello non di decidere ma di mediare perché si arrivi a una soluzione il più possibile condivisa, garantendo la comunione con il vescovo e la sinodalità con le altre comunità. È chiaro che ciò è possibile solo se tutti sono disposti a partecipare in modo attivo alla vita della comunità. Un’autentica vita comunitaria rappresenta l’unico metodo efficace di formazione alla democrazia.