Tempo di Quaresima B – 2. Domenica
Le tre letture di oggi sono unite da un filo comune: quello del figlio che è donato dal padre. Nella prima lettura si racconta appunto di un padre, Abramo, che aveva ottenuto da Dio, dopo anni di preghiere e di tentativi andati a vuoto, di avere un figlio, dal quale sarebbe sorto un grande popolo. E ora Dio gli chiede di sacrificarlo a lui. Il lettore viene avvertito che si tratta non di una richiesta vera ma di una prova. Abramo non lo sa ma obbedisce senza fiatare. Il lettore moderno avrebbe molto da obiettare, ma il messaggio del racconto è chiaro: nessun figlio appartiene ai genitori, in quanto riceve un compito che va al di là dei loro sogni e desideri.
Nel vangelo si parla di un altro figlio, Gesù, che è donato da Dio, suo Padre. Di lui si parla in un racconto inusuale, nel quale Gesù appare circondato da una luce divina, simbolo del suo rapporto speciale con Dio. Il racconto assume un significato particolare se si ricorda che Gesù è diretto verso Gerusalemme e ha appena annunziato la sua imminente morte e risurrezione. Accanto a lui appaiono Elia e Mosè, che rappresentano due grandi esperienze di Israele: il profetismo e la legge. Ciò significa che in Gesù si compiono le Scritture, con tutto ciò che esse significano per il popolo ebraico. Pietro vorrebbe rimanere sul monte con Gesù e con i due personaggi che sono con lui. Ma la voce di Dio lo richiama alla realtà: Gesù è il suo figlio amato, per questo deve essere ascoltato, non sulla cima di un monte, ma nel groviglio della vita quotidiana. Gesù è un maestro che indica la via verso il Padre.
Nella seconda lettura si dice che Dio non ha risparmiato il suo figlio ma lo ha dato per noi. Dobbiamo scartare l’interpretazione, suggerita implicitamente dall’abbinamento con la prima lettura, secondo cui Gesù è morto in sostituzione dei peccatori, per offrire a Dio al loro posto una degna ammenda. Non è così: Dio ha dato il suo figlio come guida nel cammino verso di Lui, un cammino che non è facile perché passa attraverso la croce.
Non è facile rinunziare al proprio figlio. Ogni genitore vorrebbe tenerlo sempre per sé. Ma il figlio deve andare, deve fare la sua vita. Neppure Dio ha voluto tenere per sé il suo figlio ma lo ha dato per noi. A noi spetta il compito non di adorarlo, ma di ascoltarlo e seguirlo. Con il rischio di pagare un prezzo molto alto, ma con un vantaggio ineguagliabile: dare un senso alla nostra vita.
Se il racconto del sacrificio di Isacco fosse realmente accaduto, Abramo potrebbe aver pensato che Dio voleva fargli un brutto scherzo. Per fortuna si tratta di una scena simbolica, passibile di diverse interpretazioni. Ma quella che vede nella richiesta fatta ad Abramo un test della fede del patriarca proprio non convince. Eppure ha fatto fortuna nel cristianesimo: basta citare il «Credo quia absurdum» (credo perché è assurdo) di Tertulliano da cui deriva l’obbedienza «perinde ac cadaver» (come un cadavere) raccomandata da S. Ignazio. Fortuna che i tempi sono cambiati, ma forse non è ancora cambiato del tutto il modo di concepire la fede.
Nella seconda lettura i ruoli sono cambiati: secondo Paolo il padre è Dio stesso che non ha risparmiato il suo Figlio ma lo ha consegnato per tutti noi. Questa volta però il figlio non è stato sostituito da un capro, ma è andato a finire in croce. Ma allora è Dio che ha voluto la morte di Gesù? E come mai la morte del figlio è una prova che Dio è dalla nostra parte, che ci vuole bene?
Per fortuna il racconto della trasfigurazione di Gesù, anch’esso chiaramente simbolico, ci indica un modo alternativo di leggere l’esperienza di Gesù. Anzitutto le sue vesti splendenti sono segno della presenza divina. E poi l’apparizione di Elia e Mosé, due figure di condottieri che avevano giocato un ruolo essenziale per la liberazione di Israele e la sua costituzione come un popolo fedele a Dio, giusto e solidale. Il narratore non dice di che cosa parlava Gesù con Elia e Mosè, ma certo in questa compagnia, con le vesti splendenti, Gesù appare come colui che porta a compimento la loro missione. Non quindi una vittima sacrificale, ma un vero leader a servizio del suo popolo, disposto a pagare di persona.
La voce dal cielo conclude il racconto. Gesù è il figlio prediletto di Dio, quello che rivela agli umani la sua paternità. È l’amato, perché porta a termine la liberazione del suo popolo. Dai suoi non si aspetta obbedienza, ma ascolto: a loro dona la possibilità di essere suoi collaboratori, le primizie di un popolo rinnovato.
Sono d’accordo su tutto quanto è stato scritto o detto però vorrei fare una piccola riflessione sul termine ‘sacrificio’ molto usato nel linguaggio comune. Esso attesta l’appartenza alla Chiesa Cattolica e l’ho sentito usare molto quando il lavoro era manuale e faticoso. Avveniva che la persona che non collaborava stava seduta e quindi le si rivolgeva l’invito a “sacrificas un po’ anca ti” come dire “sali”, esci dalla tua posizione seduta e collabora anche tu. Forse questa radice ‘sa…’ comune ad entrambe le parole dava la forza a questa parola per essere usata così frequentemente!
Sono d’accordo, la parola “sacrificio” è usata anche nel linguaggio comune, ma con quale significato? Mi sembra che abbia sempre una connotazione di mortificazione e di rinuncia. Mentre la parola “dono” evoca più il significato di un impegno gioioso per qualcosa che dà un significato alla vita.
Sintesi della videoconferenza
Le tre letture sono molto problematiche. Il racconto del sacrificio di Isacco forse era originariamente finalizzato a escludere il sacrificio dei primogeniti; tuttavia lascia perplessi il fatto che sia stato inserito nella Bibbia come test della fede di Abramo. Il tipo di fede richiesta dal patriarca ci sembra assurdo. Difatti il brano del vangelo segue un’altra linea. Il figlio non è Isacco ma Gesù. La sua trasfigurazione mostra come il divino si manifesti nell’uomo, soprattutto in certi uomini dotati di un carisma speciale. Per questo Gesù non è solo un figlio, ma il Figlio di Dio. In lui trova compimento tutta l’esperienza di un popolo, significata in Elia e Mosè, il profetismo e la legge. Ma al tempo stesso questa esperienza è superata: Pietro vorrebbe trattenere Elia e Mosè, ma essi scompaiono, e resta solo Gesù. All’obbedienza cieca richiesta ad Abramo subentra l’invito di Dio: «Ascoltatelo!». Gesù ci parla con le parole ma soprattutto con la sua vita e la sua morte. Questa è un «sacrificio», ma solo in senso metaforico: è la scelta di un uomo che ha avuto una visione del mondo e della vita e per realizzarla non ha avuto paura della morte. Dio non lo ha risparmiato perché proprio questa morte significa che Dio ama l’umanità e non l’abbandona. Per questo bisognerebbe abbandonare il concetto di sacrificio, che evoca in noi una visione negativa della vita e della fede, e parlare piuttosto di «dono», come anche fa in genere Paolo nelle sue lettere.
Le omissioni di parziali passaggi in questo già di per sé insensato testo, non aiutano certo a una sua comprensione.
Dio prova (?) la fede di Abramo, vuole appurare fino a che punto si fida di Lui, se la sua fiducia è piena, totale fino ad eseguire ogni suo comando anche se contrario a ogni umana comprensione, come quella d’ immolare sull’ altare il “ suo unico, amato figlio”. Un sacrificio che, oltretutto, non comporta un atto di amore per la salvezza altrui, ma che sacrifica l’altro …per la sete di sangue di un dio inflessibile?
Si direbbe però che la fede di Abramo non è così priva di senso. Del resto, come potrebbe una fede fondata sull’incommensurabile Amore verso Dio, interpretare questa richiesta?
Infatti, quando avvista il Monte Moria (passaggio omesso in liturgia) dice ai servi “ aspettateci qui, solo noi due saliremo e poi io e il ragazzo torneremo da voi”
Nella sua grande Fede, Abramo prevede una sorta di lungimiranza di Dio che è incomprensibile alla sua mente umana, ma che la sua Fede fondata sull’ Amore verso un Dio Padre, gli assicura che lui non vuole certo il sangue del suo “ unico, amato figlio” e che troverà in lui stesso la vera ultima soluzione, capace di dare senso alla propria e all’altrui vita ?.
Formare la propria vita al bene più grande, al senso ultimo della vita come trasmessoci nel suo esempio da Gesù di Nazaret, non comporta forse scelte di onestà, di coerenza in ognuna delle nostre piccole scelte quotidiane che però possono anche condurre fino all’estremo sacrificio di sé, come testimoniato nella vita dell’ambasciatore Attanasio ucciso in questi giorni in Congo?