Cristo Re B
Le letture di questa domenica hanno come tema la ricerca della verità, come espressione della regalità di Gesù e della sua comunità. Nella prima lettura, la figura di uno «simile a un figlio d’uomo» è introdotta in contrasto con quattro mostri marini che rappresentano gli imperi dell’antichità. L’espressione «figlio d’uomo» non indica altro che un individuo appartenente alla razza umana. Egli è l’uomo mediante il quale Dio sconfigge le potenze del male. Al termine della visione però il figlio d’uomo viene identificato con l’Israele degli ultimi tempi, che riceverà un giorno il potere di cui si erano impossessati i grandi imperi. Il figlio d’uomo è dunque un individuo che rappresenta una comunità a cui viene conferito il regno di Dio.
Nel brano del vangelo come titolare di questo regno viene indicato un individuo, Gesù, il quale, in quanto Messia, riveste la dignità regale. Secondo il quarto vangelo Gesù, di fronte a Ponzio Pilato, lo ha dichiarato in modo esplicito, ma ha precisato che il suo regno non è di questo mondo. Ciò non significa che la sua regalità si attua in un mondo diverso dal nostro ma piuttosto che essa è diversa da quella che si attua in questo mondo. Infatti i regni di questo mondo si qualificano per la violenza con cui impongono l’ordine sociale, il più delle volte in favore di una ristretta minoranza di privilegiati. Per evitare ogni rischio di malinteso, Gesù nel vangelo afferma che il suo regno consiste nel rendere testimonianza alla verità: questa nel linguaggio biblico è l’equivalente della fedeltà con cui Dio si rapporta a questo mondo e a tutta l’umanità. Testimoniare la verità significa dunque manifestare al mondo la fedeltà di Dio. Gesù lo ha fatto non solo a parole, ma praticando lui stesso, fino alla morte, la fedeltà verso Dio e i fratelli.
Nella seconda lettura si parla invece di una regalità conferita a tutta una comunità, quella dei discepoli di Gesù. Essi devono esercitarla, come ha fatto Gesù, non mediante i mezzi del potere (utilizzati spesso anche nelle moderne democrazie), ma mediante la testimonianza della vita. Questa si identifica con il sacerdozio che compete a tutti i fedeli come comunità che dà gloria a Dio non mediante riti o cerimonie religiose, ma praticando la giustizia fra gli uomini.
La regalità di Gesù e dei suoi discepoli è dunque un antico simbolo che indica non un potere ma un servizio che i credenti svolgono in funzione del bene comune. Esso consiste nel dare testimonianza alla verità: è questo lo scopo per cui esiste la comunità dei discepoli di Gesù, i quali, come lui e insieme a lui, accolgono la fedeltà di Dio e la manifestano nel rapporto che instaurano tra di loro al servizio di tutta la società.
Una verità da testimoniare
Per una popolazione sottomessa a una pesante dominazione straniera l’annunzio di una prossima liberazione per mezzo di un personaggio celeste, forse un angelo, in forma umana (Figlio dell’uomo, cioè un membro della specie umana) doveva essere particolarmente allettante. Certo questa attesa non poteva far piacere ai romani, dal momento che a essa si ispirava tutto un movimento che di lì a tre decenni avrebbe causato una rivoluzione che essi hanno soffocato nel sangue.
Per l’autore del quarto vangelo, che scriveva ormai sette decenni dopo la morte di Gesù, questo personaggio regale inviato da Dio era Gesù stesso. Ma come dimostrarlo data la terribile sconfitta da lui subita proprio da parte dei romani? Chiaramente per poter dimostrare che Gesù era il re liberatore inviato da Dio bisognava cambiare la definizione stessa di regno di Dio. E, secondo l’evangelista, Gesù lo ha fatto proprio di fronte al rappresentante di quell’impero che si opponeva al regno di Dio.
Di fronte a Pilato Gesù ha affermato di essere veramente re, ma non secondo i criteri di questo mondo; una regalità la sua che consiste non nella vittoria sui nemici ma nel dare testimonianza alla verità. Pilato non poteva certo capire questa affermazione, perché la sua cultura lo portava a identificare la verità con un complesso di dottrine che descrivono in modo corretto ciò che avviene in quel mondo che non cade sotto i nostri sensi. Per Giovanni invece Gesù, da buon ebreo, non poteva concepire la verità se non come la fedeltà di Dio, che realizzava le promesse fatte ai suoi progenitori. In realtà, il coraggio di Gesù, fedele fino alla morte nel difendere la dignità di ogni essere umano, era la prova più chiara della fedeltà di Dio verso il suo popolo e verso tutta l’umanità.
Una regalità quindi, quella affermata da Gesù. alla quale egli avrebbe associato, come afferma la seconda lettura, tutti coloro che avevano accettato di seguirlo. A essi egli chiede non l’accettazione acritica di certe dottrine, ma la ricerca, personale e comunitaria, di una verità mai completamente posseduta, quella cioè che consiste nella fedeltà a ogni essere umano, considerato come un fine e mai come un mezzo.
I primi cristiani hanno riconosciuto in Gesù il Cristo, cioè il Messia, il re degli ultimi tempi atteso dai giudei. Questa concezione nel giudaismo ha una forte connotazione nazionalistica: perciò la pretesa di essere il Messia rappresentava già di per sé un atto di sedizione nei confronti del potere romano. Dal vangelo di Marco, il più antico, risulta che in realtà Gesù non ha mai avanzato una pretesa del genere. La stessa cosa si afferma nel vangelo di Giovanni, nel quale Gesù, accusato davanti a Pilato di aver preteso di essere re, ammette di esserlo realmente, ma sottolinea che il suo regno non è di questo mondo, cioè non si adegua ai modelli che in questo mondo regolano l’agire dei potenti. E dalle reazioni di Pilato sembra che questi gli abbia dato credito. Sappiamo però dai vangeli che l’unico titolo che Gesù si è attribuito è quello di «Figlio dell’uomo». Dalla prima lettura di questa festa veniamo a sapere che questo titolo non esprime l’umanità di Gesù (in concomitanza con la sua divinità) ma piuttosto designa un personaggio celeste, dotato di una fisionomia umana, che esercita in nome di Dio la regalità su Israele e nel mondo. Altri dettagli su questo personaggio si ricavano da un libro conosciuto al tempo di Gesù intitolato «Parabole di Enoc», dal quale risulta che questo titolo era attribuito a un essere divino, preesistente alla creazione, che un giorno Dio avrebbe mandato dal cielo come giudice per sconfiggere le potenze diaboliche che operano in questo mondo: queste erano considerate, in base al mito della caduta degli angeli (cfr. Gn 6,1-3), come le anime immortali dei giganti che non erano state distrutte nel diluvio ma vagavano nel mondo seminando sciagure e corruzione. Secondo i primi cristiani Gesù è il Messia ma allo stesso tempo è il Figlio dell’uomo che apparirà un giorno come giudice per sconfiggere il potere del male; egli però è già venuto in questo mondo nel corso della storia per offrire il perdono ai peccatori e preservarli dal giudizio finale. Queste considerazioni servono a capire che la persona di Gesù è stata interpretata, fin dal tempo della sua vita terrena, in vari modi, a volte contrastanti. Per noi egli resta l’uomo che ha dato testimonianza alla verità, cioè colui che ha manifestato fino alla morte la fedeltà di Dio verso l’umanità, mantenendo viva l’esigenza di una fraternità che va oltre le barriere etniche o religiosi che dividono gli uomini.