Mese: Giugno 2021

No al proselitismo

Ho letto con piacere quanto scrive Severino Dianich nell’articolo “No al proselitismo“: “L’evangelizzazione, infatti, ha in comune con il proselitismo il desiderio che l’altro accolga la proposta di condividere la fede in Cristo. Ma la vera evangelizzazione rovescia l’intento dal quale è mosso il proselitismo. Proselitismo è diffondere un’idea per potenziare il proprio gruppo e sé stessi. È ovvio che lo faccia un partito politico in campagna elettorale, ma alla Chiesa non è permesso di farlo. Insorgerebbe l’apostolo Paolo, esibendo la sua testimonianza: «Noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore» (2Cor 4,5). O l’evangelizzazione è offerta di un dono che si è ricevuto, nella totale gratuità del dono, o evangelizzazione non è. Per evangelizzare è necessario lasciare la Chiesa in secondo piano, perché lo spazio del discorso sia occupato totalmente da Gesù: solus Christus. Solo Gesù è il salvatore, solo Gesù è il Signore, solo il Figlio di Dio è degno che si creda in lui, cioè che si dedichi a lui la propria vita.”

Mi resta però un grosso problema: il Gesù che noi presentiamo, dopo 2000 anni di cristianesimo, è in gran parte una figura “confessionale”, rivestita di tutta una serie di incrostazioni che provengono da una cultura in cui la Chiesa era predominante. Oggi le ricerche sul “Gesù storico” mostrano chiaramente come non tutti gli sviluppi successivi siano stati omegenei con l’annunzio fatto da Gesù. Ne risulta che l’evangelizzazione diventa automaticamente proselitismo. A meno di affrontare onestamente, come individui e come Chiesa, un vero processo di riforma intellettuale e di fede tale da presentare Gesù con modalità che vadano alle radici del movimento cristiano e al tempo stesso una sequela che vada al di là dell’appartenenza all Chiesa. Ora temo proprio che su questo, salvo lodevoli eccezioni, non si sia ancora mosso il primo passo.

Tempo Ordinario B – 11. Domenica

La speranza cristiana

Il tema di questa domenica è quello della speranza. Ciò appare subito dalla prima lettura. Il ramoscello che è prelevato dal grande albero ed è piantato sul monte di Israele rappresenta gli esuli che si trovano in Babilonia: il profeta annunzia loro che un giorno ritorneranno e si ricostituiranno come popolo nella loro terra. L’oracolo contiene anche la speranza in una figura di re fedele mediante il quale Dio farà rivivere il suo popolo. Gli uccelli del cielo che si riparano all’ombra dei suoi rami sono le nazioni che un giorno si uniranno a Israele per costituire insieme un’umanità nuova. Tutto ciò è attribuito alla potenza di Dio «che umilia l’albero alto e innalza l’albero basso».

Anche le due parabole di Gesù riportate da Marco sono un richiamo alla speranza. Il seme viene gettato nel terreno e sembra che scompaia, che muoia o magari che sia mangiato dagli uccelli. L’impressione è quella di uno spreco, mentre la gente ha un bisogno immediato di alimentazione. Per di più il contadino non può farci nulla, non può garantire che il seme cresca e dia il raccolto sperato. Non può far altro che attendere e sperare. Ma nel frattempo il seme cresce e produce spighe piene di chicchi che egli raccoglie con soddisfazione. La stessa cosa capita per il granello di senape che, nonostante la sua piccolezza, produce un grande albero, unicamente per la forza che ha in sé. Ciò avviene perché così operano le leggi della natura. Il contadino sa come andranno le cose. Non si lascia condizionare dalle apparenze. Con queste due parabole Gesù vuole dire che il regno di Dio fa la sua strada, anche se non con le modalità che vorremmo noi.

Nella seconda lettura la speranza è proiettata verso un’altra vita che ci sarà data dopo la morte. Ma questa nuova vita comincia già quaggiù, se noi ci sforziamo di essere graditi al Signore, cioè di vivere secondo gli ideali da lui proposti nel vangelo.

La fede in un Dio che è padre di tutti porta con sé la speranza in un mondo migliore, verso il quale tende la storia umana. I segni di questo mondo nuovo ci sono, ma spesso non li sappiamo vedere perché ci aspettiamo solo un progresso materiale a nostro vantaggio, non importa se gli altri ne sono esclusi. Invece ciò di cui abbiamo bisogno per essere felici è un mondo più giusto e solidale, in cui tutti sono fratelli. Se siamo disposti, come il contadino che getta il seme nel terreno, a sacrificare qualche cosa perché questo mondo nuovo si realizzi, allora ci renderemo conto che le cose cambiano per il meglio, anche se non con i ritmi che ci aspetteremmo. 

Corpo e sangue del Signore B

Un Dio alleato dell’umanità

In questa festa la liturgia ci invita a riflettere sul tema dell’alleanza. Nella prima lettura si parla di un rito che doveva servire a ratificare l’alleanza tra Dio e Israele. In questo rito sono presenti tutti gli elementi fondamentali dei sacrifici che venivano offerti alla divinità: l’altare, il sacerdote (Mosè), la vittima immolata, il sangue versato. Ma mentre nelle altre religioni il sacrificio era un dono fatto alla divinità per renderla “propizia” e ottenerne i favori, qui il sangue ha un valore simbolico: versato sull’altare e sul popolo esprime la “consanguineità” cioè la comunione di vita tra Dio e il suo popolo. Una comunione che, per poter sussistere, deve avere come presupposto l’osservanza dei comandamenti. Il rapporto con Dio si basa dunque non su uno scambio di favori tra Dio e l’uomo ma sulla fedeltà a Dio che si attua sulla pratica di quei valori fondamentali che sono la giustizia sociale e solidarietà. Alla luce del gesto simbolico attribuito a Mosè il narratore vuole affermare che gli analoghi sacrifici che venivano offerti nel tempio avevano lo scopo di fare memoria dell’alleanza e di orientare il popolo verso un comportamento giusto e santo.

Nell’ultima cena Gesù, prevedendo la sua morte imminente, la presenta come l’espressione del dono di sé che corona una vita vissuta per gli altri. Gesù non cerca la morte, ma è disposto a rischiare la vita perché si attui quel mondo migliore che egli aveva definito come regno di Dio. Il pane e il vino hanno chiaramente un significato simbolico. Il pane rappresenta la sua persona in quanto spesa per i fratelli mentre il sangue rappresenta la morte a cui va incontro con coraggio per vincere in se stesso e negli altri la forza del peccato, che consiste nel mettere il proprio interesse al di sopra del bene comune. La morte del giusto non è un fallimento ma una vittoria: per questo spesso i potenti di questo mondo non vogliono fare dei martiri, sono troppo pericolosi, perché hanno il potere di smuovere gli animi paralizzati dalla paura. Mediante il suo dono portato all’estremo, Gesù rinnova l’alleanza, mostrando che Dio l’ha stabilita fin dall’inizio, non con un popolo privilegiato ma con tutta l’umanità.

Nella seconda lettura viene elaborata per la prima volta esplicitamente l’interpretazione sacrificale della morte di Gesù. Alla luce dei riti sacrificali degli ebrei, la morte di Gesù viene spiegata come un sacrificio che elimina i peccati e rinnova l’alleanza tra Dio e l’umanità. Ma, attenzione! Gesù non ha compiuto nessun rito. Il suo sacrificio si svolge non in un tempio ma nel santuario celeste, cioè nella vita vissuta per Dio e con Dio. L’effetto di questo sacrificio è la vittoria sul potere del male e la proposta di una vita nuova, donata a Dio e ai fratelli.

Noi oggi possiamo ancora parlare del “sacrificio” di Cristo, ma dobbiamo abbandonare l’idea che Gesù sia morto al nostro posto per espiare i nostri peccati, cioè per essere punito al nostro posto e così ottenerci il perdono di Dio. Non è così: il suo sacrificio indica la pienezza del dono che ha fatto di sé in tutta la sua vita. È con questo dono che si rinnova l’alleanza che Dio ha stabilito fin dagli inizi con tutta l’umanità. Nella messa i cristiani ricordano ciò che ha fatto Gesù non per sentirsi dei privilegiati ma per imparare dal Maestro a donare se stessi per il bene di tutti, a partire da coloro che sono considerati come gli scarti dell’umanità.