Corpo e sangue del Signore A
Il tema di questa festa è indicato dalla prima lettura in cui l’autore, che parla in nome di Mosè, fa leva sul concetto di «memoria»: gli israeliti devono ricordare ciò che il loro Dio ha fatto per loro, liberandoli dalla schiavitù dell’Egitto e sostenendoli nelle difficili prove attraverso cui sono dovuti passare nel deserto. Chiaramente non si tratta di una memoria puramente concettuale, ma di un ritornare con la mente e con il cuore a un evento passato sul quale si basa la realtà stessa della loro esistenza come comunità. Per gli israeliti ricordare l’uscita dall’Egitto significava mettere al centro della loro esistenza come popolo la fedeltà a Dio, espressa mediante l’osservanza della sua legge.
Nel brano del vangelo Giovanni ci ha lasciato, attribuendola a Gesù stesso, una catechesi sul significato della cena che i cristiani celebravano nelle loro comunità. Ripetere il gesto e le parole di Gesù, significava per loro ricordare tutto quello che egli aveva detto e compiuto, il suo annunzio della prossima venuta del regno di Dio e il suo amore per i poveri e per gli emarginati, fino alla sua morte cruenta sulla croce. I cristiani erano consapevoli che mangiando il suo pane e bevendo il suo vino essi entravano in comunione con lui, cioè diventavano partecipi della sua stessa vita. Ciò significava la possibilità di vivere in questo mondo come lui era vissuto, nella fedeltà a Dio e ai fratelli. In forza di questo rapporto con lui essi facevano l’esperienza di uscire da se stessi e di porsi al servizio degli altri nella ricerca generosa del bene comune. Gesù sottolinea che solo possedendo già quaggiù la sua vita è possibile ottenere un giorno, dopo la morte, una vita nuova con il Padre.
Nella seconda lettura ritorna il tema della comunione con Gesù che si attua quando si mangia il suo pane e si beve il suo sangue. Ricordando in chiave personale e comunitaria quello che lui era stato e aveva fatto per loro, i credenti adottano la sua logica di vita che consiste nell’impegno per anticipare nell’oggi il regno di Dio. Essi diventano così una realtà nuova, cioè vengono a formare un solo corpo con Gesù e con i fratelli.
L’Eucaristia è dunque il segno sensibile della presenza reale di Cristo nella comunità dei suoi discepoli. Spesso nella messa l’accento è posto sulla “consacrazione” perché con essa si rende presente il corpo e il sangue del Signore. Questo poi diventa oggetto di culto mediante l’adorazione eucaristica, le processioni, la benedizione eucaristica. Oggi, con la riforma liturgica, è venuto in primo piano il concetto di memoria. Chi partecipa alla cena del Signore ricorda la sua persona, il suo insegnamento, la sua morte e la sua risurrezione. Questo ricordo, se è autentico, dovrebbe produce un’intensa comunicazione tra i presenti, che diventano così un corpo solo con Cristo e si mettono al servizio gli uni degli altri e della società a cui appartengono. Se questo non avviene, vuol dire che si è ancora lontani dall’ideale proposto da Gesù.
Non sono lontani i tempi in cui la presenza di Gesù, uomo-Dio, nell’ostia suscitava una santo terrore. Per molti di noi, non più giovani, la prima comunione è stata un’esperienza traumatizzante per il digiuno da osservare, per la necessità di evitare anche i piccoli peccati quotidiani, per quel fatto, spesso inculcato, di non dover masticare l’ostia. Effettivamente se quel pane inusuale era veramente il corpo e il sangue di Gesù, c’era veramente da stare attenti a non attirarsi, invece delle sue grazie, qualche meritato castigo. E, passate le forche caudine della prima comunione, restava solo più l’obbligo di comunicarsi una volta all’anno, dopo aver fatto debita ammenda dei propri peccati.
In un certo senso la festa del Corpus Domini è nata in questo clima. Se Gesù è presente nell’ostia che cosa fare se non adorarlo, portarlo in processione, chiedergli qualche raccomandazione, fare cioè nei suoi confronti quanto la gente comune faceva con le persone altolocate. Guai a contrariarle e, nei limiti del possibile, cercare di ottenere la loro benevolenza.
Ma, a pensarci bene, che vantaggio ne ha Dio o il suo Figlio Gesù dal nostro culto, dal vedere che siamo sottomessi, ossequiosi nei loro confronti? Quando Gesù ha fatto l’ultima cena con i suoi discepoli non desiderava certo di essere adorato da loro, ma piuttosto voleva che fossero loro a portare avanti nella storia il suo progetto di salvezza. Per questo era necessario che lo ricordassero, che lo sentissero presente, e continuassero ad assimilare i suoi stessi pensieri e le sue scelte. E per simboleggiare questa assimilazione, che cosa c’era di meglio che presentarsi a loro come un pane da mangiare per diventare una cosa sola con lui?
Il rapporto con Gesù, se è autentico, tende però ad espandersi e a riprodursi in un rapporto vicendevole tra coloro che credono in lui. La sua memoria sovverte schemi ed equilibri, abbatte muri, crea unità di intenti, cambia la vita delle persone e della società. Almeno dovrebbe… se fosse autentica. L’unico modo che abbiamo a disposizione di dare culto a Gesù e, per mezzo suo, a Dio, è quello di diventare noi stessi pane e vino per coloro che sono soli, disprezzati, violentati.
“Oggi, con la riforma liturgica, è venuto in primo piano il concetto di memoria”
Secondo me con la riforma liturgica non è venuto in primo piano il concetto di memoria ma è che l’eucaristia diventa “MEMORIALE”
Forse sbaglio. Chiedo spiegazione
Del tempo delle messe in streaming, mi è rimasta in cuore soltanto la Speranza nella preghiera di Papa Francesco nella piazza deserta: “…l’emergenza attuale può essere l’occasione di «reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri”
Speranza che oggi sta a me, a noi mettere in atto.
Il corpo di Gesù, fratello e maestro unico, sento che vive in mezzo a noi, “ quando, ci si riunisce nel suo nome”, così come credo vedere Il suo corpo e il suo sangue in tutti gli odierni crocifissi, e nei loro crocifissori, perché, “non sanno quello che fanno” anche a se stessi.
Nei vangeli non vediamo mai Gesù dare l’elemosina a un affamato, la vita è condivisione e Gesù la vive creando tanti momenti di convivialità, da cui nessuno è escluso. Ama molto i banchetti … il vangelo di Giovanni inizia con le nozze di Cana e finisce con Gesù che accende un fuoco per cucinarvi il pesce che mangerà con i suoi discepoli arrivati dal mare.
E’ proprio vero che quando si mangia insieme ci si sente più uniti, per questo Gesù deve avere privilegiato questa modalità, additando anche ai giudei, di cui voleva migliorare la legge, i valori dell’inclusività contro la rigidità delle loro norme alimentari che generavano divisioni ed esclusioni.
Nell’ultima cena non penso (non riesco a immaginarmelo) che Gesù, che si considerava uomo come gli altri uomini, abbia parlato di sacrificio del suo corpo e del suo sangue, questa è una visione tenebrosa della nostra dottrina, che spero venga superata, ma piuttosto penso che abbia voluto condividere tutto della sua vita. E ci chiama a fare altrettanto, perché è a una tavola condivisa con gli amici, con Mamadou, con Branco e tanti altri, che si crea comunione, non simbolica, ma reale.