Tempo Ordinario C – 27. Domenica
Le tre letture riportate dalla liturgia mettono in luce il tema della fede. Nella prima lettura il profeta Abacuc, dopo essersi interrogato circa il comportamento di Dio nelle terribili situazioni in cui il popolo sta vivendo, riceve da Dio una risposta che deve essere conservata con la massima cura, per verificarne la realizzazione. Essa consiste in una minaccia per l’empio e una promessa per il giusto: il primo è destinato a perire mentre il giusto, in forza della sua fede, vivrà. In altre parole, di fronte alla sventura solo il giusto sopravvivrà perché ha fiducia in Dio. La fede consiste dunque nel fidarsi di Dio, ricercando ciò che è bene e ciò che è giusto, sapendo che alla fine il suo progetto si realizzerà. Chi ha questa fede saprà affrontare anche le peggiori disgrazie senza soccombere.
Questo messaggio si collega con quello del vangelo. Gesù afferma l’importanza della fede, di cui sottolinea l’efficacia in vista del regno di Dio. Essa non consiste tanto in verità da accettare senza una verifica della ragione, e neppure nella sicurezza che Dio esaudirà le proprie richieste, quanto piuttosto in una fiducia totale in lui e nella sua provvidenza. È questa fede che aiuta a non soccombere alle prove della vita, ma piuttosto a farne un’occasione di crescita e di amore verso il prossimo. Sulla stessa linea si pone la parabola del servo inutile. Essa non mira certo a presentare Dio come un padrone autoritario e privo di considerazione verso i suoi figli. Ciò che Gesù vuole sottolineare è che la fedeltà a Dio, che si manifesta nella pratica delle buone opere, non comporta per sé il diritto a una ricompensa da parte di Dio. In altre parole il bene è fine a se stesso, cioè deve essere compiuto perché è bene, non per avere un merito di fronte a Dio o agli uomini. Dopo aver fatto tutto ciò che la sua fede gli ispirava, il discepolo deve abbandonarsi totalmente alla misericordia gratuita di Dio cercando di scoprire il suo agire misterioso nelle vicende di questo mondo.
Nella seconda lettura si riprende il tema della fede. L’autore, a nome di Paolo, esorta Timoteo a ravvivare il dono di Dio che è in lui. E specifica che Dio gli ha conferito il suo Spirito che non è causa di timidezza ma di forza, di carità e di prudenza. E lo invita a soffrire con lui per il vangelo seguendo gli insegnamenti che ha ricevuto da lui.
La fede non consiste nell’accettare a occhi chiusi determinate dottrine e neppure nell’aspettarsi interventi miracolosi da parte di Dio o un premio per le proprie buone azioni. Aver fede significa invece mettere al centro della propria vita la ricerca del Bene in tutte le sue manifestazioni. Dio è amore e solo chi crede nell’amore è un vero credente.
Fede o meritocrazia?
Allora possiamo dire che la scuola è fatta per promuovere i più meritevoli e attrezzarli per la scalata sociale? È questo che ho pensato quando ho sentito che ora abbiamo un Ministero dell’Istruzione e del Merito. Beh, non c’è da scandalizzarsi se si pensa che da secoli si insegna ai buoni cristiani che Dio sta lì a giudicare le nostre azioni, a distribuire premi o castighi, ad aprire o chiudere le porte del paradiso a seconda dei meriti o dei demeriti che uno si è fatto in questa vita. Come se Dio avesse bisogno delle nostre buone opere per sentirsi soddisfatto e ben disposto nei nostri confronti.
Non mi sembra che Abacuc (chi è costui?), citato nella prima lettura, la pensi diversamente. Secondo lui, quando sopravvengono le grandi tragedie della vita o della storia, l’unica cosa che ci fa stare in piedi è la fede. Certo non si tratta di fideismo ma della convinzione che Dio, cioè il Bene, è più forte del male, e che le prove della vita si superano mettendosi dalla sua parte, anche se ciò esigesse un prezzo molto alto.
Sono convinto che Gesù la pensava proprio così quando ha detto: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe». Secondo Luca Gesù ha poi rincarato la dose osservando che, dopo aver fatto tutto quello che dovevamo fare, non dobbiamo aspettarci un premio da Dio o dagli uomini ma dire semplicemente: «Sono un servo inutile». Il regno di Dio da lui annunziato non è un premio per i buoni che se lo sono meritato, ma un dono totalmente gratuito di Dio. Certo non un dono che Dio elargirà dopo, in un altro momento, come una ricompensa, bensì un dono sempre presente. Infatti il regno di Dio non è una realtà futura, ma una possibilità che si dischiude a ogni essere umano proprio in forza della sua umanità. Un dono però che provoca impegno, fiducia e speranza.
Gesù ci invita dunque a non cercare l’approvazione di Dio o degli uomini, ma semplicemente ad accogliere il dono preventivo di Dio che ci rende capaci di essere persone vive e generose. Questo dono però, come dice la seconda lettura, deve essere continuamente ravvivato. E in questo ci guida l’esempio di Gesù che ci spinge a superare ogni timidezza e ad affrontare la vita con forza, carità e prudenza.
Se uno vuol proseguire in un cammino di ricerca trova nel nuovo sito linee guida ricche e stimolanti. L’interpretazione e il commento delle singole letture invita a una riflessione approfondita.
Nelle letture di questa domenica trovo insistito l’abbandono incondizionato a Dio.
Abacuc: “il giusto vivrà per la sua fede”
Timoteo: “custodisci mediante lo Spirito Santo che è in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato”
Luca: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”
insistito e non valorizzato il principio della libertà. Si può avere fede senza sentirsi libero? senza essere libero? Un abbandono incondizionato non può essere preteso neppure da Dio perché se non è libero non è un abbandono d’amore, ma superficiale e di comodo o paura.
Non mi sembra poi possibile che Gesù, ucciso per la sua lotta per la giustizia tra gli uomini, possa aver usato come paragone per l’abbandono a Dio il concetto di schiavitù. E’ la libertà che permette l’abbandono a Dio o a una qualsiasi fede laica senza pretendere nulla in cambio, perché se scelgo liberamente sento che quello che faccio è giusto in sé e mi realizza senza ricompense.