Tempo Ordinario B – 30. Domenica
La liturgia di questa domenica ci invita a riflettere sulla visione interiore provocata dalla fede. Nella prima lettura è riportato il racconto degli esuli che lasciano Babilonia per tornare nella terra dei loro padri. Essi sono paragonati a dei ciechi che cominciano a vedere, in quanto fanno esperienza di un Dio che indica loro una meta da raggiungere e dà un senso alla loro vita.
Il tema del cieco che riacquista la vista ritorna nel brano del vangelo che conclude la sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme; con un miracolo analogo era terminata la sezione precedente, nella quale Gesù aveva rimproverato i discepoli di avere occhi e di non vedere. Il cieco Bartimeo riconosce in Gesù il figlio di Davide e chiede di essere guarito dalla sua infermità. L’evangelista aveva riportato all’inizio di questa stessa sezione la proclamazione di Gesù come Messia fatta da Pietro a nome anche degli altri discepoli mentre si trovavano nei pressi di Cesarea di Filippo. I discepoli si attendevano un messia trionfatore, che avrebbe liberato il suo popolo dalla dominazione straniera: perciò stentavano a capire la sua scelta di non violenza che lo avrebbe portato fatalmente alla morte. Essi erano spiritualmente come dei ciechi. Durante il suo viaggio verso Gerusalemme Gesù ha voluto guarire la loro cecità. Perciò ha annunziato per ben tre volte la sua imminente morte e risurrezione e ha insegnato loro che cosa significa essere suoi discepoli. Al termine, la guarigione di Bartimeo rappresenta simbolicamente il punto d’arrivo di questo percorso. Egli infatti riconosce in Gesù non il messia potente che instaura un regno terreno ma colui nel quale si manifesta l’infinita misericordia di Dio che guarisce l’umanità, conferendole quella libertà interiore che è il presupposto di ogni altra liberazione: egli ha visto con gli occhi della fede prima ancora che con quelli del corpo. La sua fede è l’espressione vissuta di ciò che Gesù ha voluto insegnare ai discepoli. Il cieco, una volta guarito, non se ne va per i fatti suoi, ma si mette al seguito di Gesù, diventando così il modello del discepolo che, ormai guarito dal desiderio di potenza, segue Gesù sul cammino della croce.
Nella seconda lettura si descrive Gesù come colui che è diventato il sommo sacerdote in quanto ha offerto una volta per tutte se stesso in sacrificio a Dio. L’autore si preoccupa però di sottolineare che questa dignità non lo separa dal popolo, anzi è l’espressione simbolica della sua compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore. È rendendosi solidale con i peccatori, e non con gesti di potenza, che Gesù ha combattuto il peccato e ha dato ai credenti la visione di un mondo nuovo.
Noi ci lamentiamo spesso che il mondo va male e vorremmo che Dio intervenisse per mettere ogni cosa al suo posto. Ma come? Con un intervento potente che scavalca la libera iniziativa dell’uomo. Dio invece interviene nelle vicende umane in modo diverso, dando a chi crede la visone di un mondo nuovo per il quale vale la pena di impegnarsi e di donare la vita. È Gesù che ci apre gli occhi e ci fa vedere la strada da percorrere. Ma con lui tanti altri hanno illuminato il cammino dell’umanità. La missione della chiesa non è quella di negare la luce che viene dagli altri ma di collaborare con tutti per rendere il mondo un po’ più umano.
Trovare la giusta via
Chissà in che cosa consisteva quella fede in forza della quale il cieco Bartimeo ha ottenuto da Gesù la guarigione. La risposta sembra ovvia: credeva che Gesù avesse il potere di guarirlo. La liturgia però ci invita ad andare più in profondità, riportando nella prima lettura la scena simbolica di un popolo di esuli che hanno riscoperto la loro identità e sono ritornati al loro Dio. Fra di loro si trovano anche ciechi, zoppi, donne incinte e partorienti: tutti si muovono unanimi sulla strada che li riporta nella loro terra. Questa profezia era presente a Gesù quando proclamava che il regno di Dio è vicino. Un regno basato sulla giustizia e sulla solidarietà, in antitesi a quello dei romani oppressori del suo popolo.
Colpisce il contrasto tra Bartimeo e l’uomo ricco a cui Gesù poco prima aveva proposto di vendere tutti i suoi beni e di seguirlo. Mentre quest’ultimo se n’era andato triste, perché aveva molti beni, il cieco butta via l’unica cosa che aveva, cioè il suo mantello, e poi si mette in cammino con Gesù verso Gerusalemme, il luogo cioè in cui lo attende una sorte drammatica. E così dimostra di aver colto nella sua guarigione una chiamata al dono di sé, a differenza dei due discepoli che poco prima avevano chiesto a Gesù di sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nel suo regno: quello che loro non avevano capito lo ha visto bene il cieco guarito.
L’autore della seconda lettura interpreta Gesù come un sommo sacerdote pienamente solidale con l’umanità e con Dio, di cui è il Figlio. Fuori metafora, Gesù è stato visto dai primi cristiani come il capo che guida il suo popolo verso quella pienezza di vita che consiste in un rapporto rinnovato con il Dio della giustizia e dell’amore. Non uno che paga per i nostri peccati, ma uno che ci salva indicandoci una meta verso cui procedere.
Per essere discepoli di Gesù bisogna dunque avere una visione nuova del mondo e della vita, fatta di speranza e di impegno perché si creino rapporti nuovi, quegli stessi per i quali Gesù è vissuto e ha dato la vita.
Videoconferenza
Noi tutti siamo cresciuti con l’idea di un Dio che sta in cielo, ha creato questo mondo e dirige come un padre buono ma severo le vicende umane. Questo Dio ci dava sicurezza e conforto nei momenti di difficoltà e ci prometteva, in cambio di sacrifici e sofferenze, la beatitudine eterna. Ora questo Dio interventista non ci soddisfa più. Ciò che ha demolito questa immagine è la visione scientifica in forza della quale noi siamo portati ad attribuire i fenomeni di questo mondo non all’intervento di un Essere soprannaturale ma a cause percepibili con la ragione. Nonostante ciò, proprio in forza delle scoperte scientifiche, noi percepiamo in questo mondo una forza aggregante che spinge nel senso di una evoluzione che si attua sia a livello fisico che animale e materiale. Noi stessi ci sentiamo parte di questo universo e siamo continuamente interpellati a contribuire al suo progresso. In realtà noi percepiamo nel nostro DNA una forza contraria che ci spinge a tutelare noi stessi e la nostra sopravvivenza anche a scapito degli altri. Questa è la causa di tante violenze e soprusi. Ma al tempo stesso la nostra finitezza ci costringe ad aprirci e a stabilire rapporti interpersonali che ci danno una grande soddisfazione e pienezza; di riflesso sentiamo che questi rapporti non hanno successo se non riconosciamo l’altro come altro, non strumentalizzabile a fini egoistici. Questo riconoscimento della «trascendenza» dell’altro ci porta a percepire un’Alterità assoluta che per noi è un mistero che ci avvolge e dà senso alla ricerca di un Bene che riguarda noi stessi e tutti gli altri, non esclusi animali, piante e tutto l’ambiente in cui muoviamo. Ma proprio in questa ricerca del Bene dobbiamo fare i conti con contrattempi, aggressioni e violenze che sono una specie di pesante «pedaggio» che noi dobbiamo pagare. In questa ricerca ci incontriamo con Gesù di Nazaret il quale annunzia che questo mondo è frutto di un progetto, chiamato regno di Dio, per il quale vale la pena di spendere la propria vita. Questo regno è finale e definitivo, anche se non in senso cronologico, ma è già anticipato, pur tra sofferenze e rinunzie, in chi lo cerca con coraggio e costanza. La guarigione del cieco esprime simbolicamente che Gesù ha la capacità di indicarci una meta e di sostenerci a proseguire nel nostro cammino, anche se dovessimo trovarci, come si è trovato lui, di fronte al fallimento di tutte le nostre aspettative.
Mi dispiace non aver partecipato all’incontro di ieri sera, ma ho letto ora il resoconto di Sandro. Sono d’accordo sul fatto che il Dio interventista della nostra infanzia è ormai definitivamente superato, anche dalle scoperte scientifiche degli ultimi secoli. Il problema però consiste, secondo me, nel fatto che non è stato sostituito da un’altra idea di Dio. Un’alterità assoluta che dà senso alla ricerca del Bene? Ma come si concilia questa idea di Dio (chiamiamolo ancora così per comodità) con il dolore, la malattia, la morte di cui la Natura è intrisa nella sua evoluzione? Come si concilia con la sofferenza e la morte di milioni e milioni di bambini? Come possiamo solo pensare di dire ai loro genitori disperati che si tratta di un “incidente” nella normale evoluzione della Natura? Certo questo non toglie valore al progetto di fratellanza di Gesù, che può dar senso alla nostra vita, ma indipendentemente da un Dio che non riesco più a vedere come un principio di Bene.
ciao sandro grazie. il mio pc fa le bizze con le maiuscole e minuscole…. comunque. e’ molto bella la tua riflessione, visto che ci credi. io sono più sul versante ateo da un po’ di tempo, cui ci porta senz’altro l’impostazione laica del nostro tempo