Tempo di Quaresima A – 5. Domenica
Nella prima lettura il profeta Ezechiele parla agli ebrei che erano esuli in Babilonia. Dopo la distruzione di Gerusalemme essi si consideravano come un ammasso di ossa aride: si sentivano come un popolo ormai distrutto. A loro il profeta rivolge una parola di speranza: Dio aprirà le vostre tombe, cioè vi farà ritornare in vita e vi ricondurrà verso la terra promessa ai vostri padri. Questa impresa si attuerà mediante un dono interiore: «Farò entrare in voi il mio Spirito e rivivrete…». Questa profezia sottolinea la forte componente comunitaria della vita. Si può affrontare in modo efficace una rinascita sociale e politica solo come popolo, vincendo la paura, ricominciando a sperare nella vita.
Nel vangelo si parla di Lazzaro, un amico di Gesù, che si trovava già da quattro giorni nel sepolcro. Ciò che colpisce è il fatto che Gesù non accorre subito al suo fianco. Lo lascia morire e poi va e gli ridona la vita. Non esclude la morte, ma aiuta a superarla. A sua sorella Marta Gesù dice: «Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me anche se muore vivrà. Chiunque vive e crede in me non morrà in eterno». Questa frase allude alla risurrezione di Cristo e di coloro che credono in lui. Anzi, chi crede in lui non dovrà aspettare la morte per ottenere una vita nuova ma la ottiene fin d’ora. Perciò è importante chiedersi in che cosa consista la fede in Gesù e come essa comunichi la vita. Spesso è difficile rispondere a queste domande perché si considera la fede in Gesù come un riconoscere in lui il Figlio di Dio incarnato. Ma secondo l’evangelista Gesù vuole dire qualcosa di più: credere in lui significa riconoscerlo come Maestro di vita, seguirlo nel suo rapporto personale con Dio e, di conseguenza, aprirsi agli altri mettendosi al loro servizio. La fede in lui non libera dalla morte, ma dalla schiavitù della morte, cioè da una morte che ci impedisce di vivere perché ci sprofonda nella paura e nell’angoscia. Credere significa sperare in un avvenire migliore, essere convinti che possiamo fare qualcosa per noi stessi e per gli altri, nonostante tutti i problemi che si prospettano all’orizzonte. Questa fede, anche se comporta rinunce e difficoltà di ogni tipo, è fonte di pace, di gioia e di benessere a tutti i livelli. Chi ottiene questa vita non ha più paura della morte perché vede in essa non una tragedia ma la porta che introduce alla pienezza di quella vita che già si possiede.
Nella seconda lettura si afferma che Gesù ci fa risorgere donandoci il suo Spirito, che è lo Spirito di Dio, cioè Dio stesso che ha dato a lui per primo la possibilità di vivere in un modo nuovo. È questo Spirito che ci dà la possibilità di essere figlie di Dio e di rivolgerci a lui come padre. Noi siamo vivi nella misura in cui ci impegniamo con Gesù, sotto la guida dello Spirito, per attuare una giustizia vera, che consiste nella ricerca del bene comune. Solo chi spera in un mondo nuovo può combattere contro ogni forma di male in sé e nella società. Senza questa speranza siamo già morti, anche se viviamo biologicamente.
Spesso anche noi siamo nella situazione degli esuli. Abbiamo raggiunto un alto standard di vita, ma ci sentiamo pieni di paura: la salute, la crisi economica, la disoccupazione, il precariato, la mancanza di futuro per le giovani generazioni. La fede in Gesù ci spinge a lottare con fiducia non contro le prove della vita per eliminarle, ma dentro le prove per farle diventare occasione di una rinascita per noi e per gli altri.
Il duello tra vita e morte
È difficile dire se Lazzaro sia stato così felice di dover affrontare una seconda volta la morte. Comunque non è questo il punto che interessa all’evangelista. Egli ha composto questo racconto chiaramente simbolico per illustrare la difficile dialettica che intercorre tra vita e morte nell’esperienza umana. Chiaramente non si tratta anzitutto della vita nell’aldilà, ma di una vita piena e gioiosa in questo mondo. A questa qualità di vita si oppone fin dalla nascita lo spauracchio di una morte incombente, che rappresenta la fine traumatica di quanto la vita comporta di bello e di desiderabile.
La morte esercita i suoi effetti nefasti sull’uomo nella misura in cui è capace di suscitare la paura di perdere e di perdersi. Da qui viene il bisogno irresistibile di sicurezza e di stabilità che si tende spontaneamente a soddisfare con la ricerca del potere, dei soldi, del successo. Tutto ciò produce però una sicurezza effimera e sfuggevole, che ci si illude di poter rendere stabile alzando continuamente l’asta dei bisogni e delle esigenze, a scapito di chi è escluso dalla competizione.
Una vita veramente piena inizia invece quando si supera la paura della morte. Solo allora infatti si impara a saper perdere, cioè a donare, a vivere l’amicizia, a impegnarsi per un bene che rende felici proprio perché è di tutti. A questo punto interviene il discorso della fede, che sostanzialmente non consiste nella credenza in particolari dottrine ma nell’apertura alla vita e alla gioia che fiorisce anche in mezzo alle sofferenze più grandi. Fede significa prima di tutto fidarsi, creare rapporti, sentirsi solidali. E soprattutto significa deporre le maschere che spesso indossiamo per difenderci dallo sguardo altrui.
Gesù è un uomo che ha creduto fino in fondo nella vita, proprio perché ha saputo accettare la sua morte. E così è stato capace di comunicare la vita a coloro che erano a rischio per la paura della morte. Credere in lui non significa anzitutto affermare la sua natura divina ma piuttosto lasciarsi coinvolgere nella sua vita spesa per gli altri. Paradossalmente proprio alla vigilia della sua morte violenta appare chiaramente la sua fede nella vita e la sua capacità di comunicarla. Una vita che è eterna perché misteriosamente va oltre la morte fisica.
Stiamo vivendo un doloroso passaggio d’epoca, ma non lo superiamo né concretamente né come esperienza spirituale se evadiamo le nostre responsabilità, le scantoniamo come Adamo e Caino nascondendoci … ci tuffiamo magari nella preghiera come facile alibi per rendere più tollerabile l’esistenza, ma non abbiamo capito le parole del profeta Isaia che ci sprona a non presentare offerte inutili, a non moltiplicare le preghiere perché non le ascolta. L’unica preghiera valida oggi credo sia mettersi in discussione e tanto e capire che il nostro compito non è convertire (neppure su facebook!), ma trasformare il mondo, stiamo vivendo situazioni estreme non risolvibili con vaghe speranze: dopo saremo tutti più buoni! Dobbiamo capire come esserlo. Riflettiamo e comunichiamo, può essere un inizio, tutti abbiamo capito quanto siamo interconnessi.
Si può ritornare in vita anche dopo una grave malattia. Una nazione può tornare in vita dopo una grande tragedia, come una guerra o un’epidemia. Un ritorno alla vita. Ma quale vita? Per una persona potrebbe essere una vita ricca di quegli affetti di cui si è sentito il bisogno durante la malattia. Per una nazione riscoprire quella solidarietà che aiuta ad affrontare con coraggio situazioni drammatiche. Ricordando che la solidarietà deve estendersi anche a quelle categorie che sono tuttora in situazioni drammatiche: rom, migranti, senzatetto, vittime della guerra, della fame e della violenza.