Pentecoste A
La festa di Pentecoste commemora la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli come inizio della Chiesa. Nella prima lettura viene riportato il brano degli Atti degli apostoli in cui si descrive questo evento. Nel suo racconto Luca è preoccupato di mostrare come proprio in quella occasione Dio abbia attuato un passo importante per la salvezza di tutta l’umanità. Lo Spirito Santo simboleggia Dio in quanto opera nella storia e nel cuore degli uomini. La sua venuta viene descritta in forma simbolica come lingue di fuoco che discendevano sugli apostoli. Lo Spirito provoca in essi un fenomeno molto conosciuto e apprezzato agli inizi del cristianesimo: il parlare in lingue (glossolalia), cioè pregare Dio in una lingua diversa e sconosciuta, con un profondo fervore accompagnato da forte emotività. Luca però trasforma questo fenomeno in un parlare «altre» lingue, quelle cioè dei presenti provenienti da tutte le parti del mondo. In tal modo egli vuole sottolineare come la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli avesse lo scopo di spingerli ad annunziare il vangelo a tutte le nazioni.
Il parlare in lingue, di cui avevano dato prova gli apostoli nel giorno di Pentecoste, era molto noto nella comunità di Corinto. Ma di esso si erano impadroniti alcuni «specialisti», persone cioè dotate di questo particolare dono («carisma»), creando un certo scompiglio nella comunità. Dal contesto della seconda lettura appare che è proprio l’esercizio di questo dono che Paolo intende correggere. Scrivendo ai corinzi, egli non condanna coloro che hanno ricevuto questo carisma, ma sottolinea che la glossolalia è solo un carisma fra i tanti che sono elargiti ai membri della comunità per il bene di tutti. Ognuno ha il suo carisma e l’unità della comunità appare proprio nell’interazione fra i diversi carismi. Nessuno è autorizzato ad appropriarsi di un carisma, esaltandolo e squalificando gli altri.
Nel brano del vangelo infine il dono dello Spirito, fatto ai discepoli dal Cristo risorto, viene messo in rapporto con la pace e con il perdono dei peccati. Il compito dei cristiani, animati e guidati dallo Spirito, è dunque quello di portare la pace e di lottare contro ogni tipo di violenza e di ingiustizia, non con mezzi violenti e neppure con la semplice protesta, ma stabilendo fra loro e con tutti un nuovo rapporto di solidarietà e condivisione.
Per essere discepoli di Gesù e membri attivi di una comunità cristiana bisogna riscoprire ogni giorno il proprio carisma e metterlo al servizio degli altri. Se ciò non avviene la Chiesa resta «ingessata», con le sue gerarchie, i suoi dogmi, i suoi riti standardizzati, le prediche noiose, a cui fa riscontro la passività dei presenti e la mancanza di conoscenza reciproca. Ma una Chiesa così ridotta difficilmente potrà diventare artefice di un profondo rinnovamento di tutta la società.
Nel suo racconto della Pentecoste Luca non ci spiega come facevano gli ascoltatori degli apostoli a rendersi conto che ciascuno di loro li sentiva annunziare le grandi opere del Signore nella propria lingua. Ma ciò non deve stupire: l’autore di un racconto simbolico non è tenuto a preoccuparsi che tutti i suoi dettagli siano verosimili. L’importante per Luca, autore degli Atti, è mostrare che la chiesa, fin dal momento della sua nascita, rivolge a tutti il suo messaggio.
Ma in che cosa consiste questo messaggio? Quali sono le grandi opere del Signore? Ce lo spiega Giovanni nel brano del suo vangelo in cui narra l’incontro di Gesù risorto con i suoi discepoli: Dio lo aveva mandato a perdonare i peccati ed ora egli affida a loro il compito di continuare la sua opera. Si suppone che Dio stia per attuare il giudizio finale ma, prima di cominciare, voglia preservare dalla condanna il maggior numero possibile di peccatori. Stranamente concede ai discepoli anche la facoltà di non perdonare. Con le conseguenze che si possono immaginare.
Ma come pensare che Dio possa arrabbiarsi per i peccati degli uomini e voglia prevenire lo scatenarsi della sua ira dando loro un’ultima possibilità di salvezza? È questo un modo troppo umano di immaginare Dio. Chi lo ha veramente incontrato, sa che Dio è amore, e il suo perdono non è altro che un operare per un mondo più giusto, in cui la violenza sia esclusa e regni la pace vera. E sa anche che Dio opera in questa direzione proprio mediante l’impegno non solo dei cristiani ma di tutti gli uomini di buona volontà.
Ma la pace non è un progetto di facile attuazione. Per portarla nel mondo prima bisogna sperimentarla in se stessi. Ma come? Paolo indica la via maestra dei carismi. Ciascuno ha dei talenti che può usare per il proprio interesse o mettere a disposizione della società. Aggregarsi alla comunità dei discepoli di Gesù significa scoprire i propri talenti e trasformarli in carismi, cioè imparare a metterli al servizio del bene comune. Solo così si annunzia il perdono dei peccati. Altrimenti la presenza dei cristiani in questo mondo è inutile. E le conseguenze si possono immaginare: anche senza far ricorso al giudizio di Dio.
Mi sembra estremamente attuale, dopo tanti secoli, l’insistenza di Paolo sulla varietà e sostanziale parità dei carismi nella chiesa. Leggiamo questo brano nell’ottica di ridimensionare il ruolo del sacerdote, ma penso che ancor più dovremmo leggerlo nell’ottica che realmente tutti i carismi devono avere nella comunità un’uguale considerazione e un uguale valore. Spesso questa rimane una simpatica dichiarazione di principio, ma nella realtà si operano gerarchie di “valore” che ben poco hanno a che fare con lo spirito fraterno. Penso che tutti dovremmo invece fare un passo indietro in un esercizio di umiltà e riconoscere davvero ugual dignità ai diversi carismi che lo Spirito ci dà.