Tempo di Quaresima A – 3. Domenica
La liturgia di questa domenica propone come tema di riflessione il simbolismo dell’acqua. Nella prima lettura viene riportato un episodio dell’esodo. Dopo l’uscita dall’Egitto, gli israeliti giungono a una località dove manca l’acqua. Potevano aspettarselo. Nel deserto l’acqua scarseggia e spesso manca del tutto. Che fare? Essi non trovano di meglio che mormorare contro Mosè, dimenticando che ciò significa mancare di fiducia in Dio. Questa volta però Dio non punisce il popolo assetato ma gli dona l’acqua di cui ha bisogno. L’acqua dalla roccia diventa così il simbolo della misericordia di Dio che dona la salvezza ai suoi figli.
Nel vangelo è riportato il dialogo di Gesù con la samaritana. Anche qui si parla di acqua. La prima impressione è che si tratti dell’acqua materiale. Gesù infatti chiede da bere alla donna samaritana, la quale si stupisce che un giudeo chieda dell’acqua a lei, che è samaritana. E’ questa una conseguenza dell’egoismo umano, in forza del quale si creano barriere invalicabili, che non permettono il comune godimento dei beni della terra. Gesù supera questa logica e promette l’acqua viva che zampilla per la vita eterna. La donna non capisce, chiede a Gesù di darle di quell’acqua, pensa che si tratti dell’acqua materiale. Invece Gesù si è spostato su un altro piano, quello del simbolismo. L’acqua di cui egli dispone è lo Spirito di Dio, che egli comunica a chi lo segue. Questo Spirito, insieme alla Verità, di cui Gesù è depositario (cfr. Gv 1,17), deve diventare il principio ispiratore del nuovo culto, l’unico che Dio gradisce.
Nella seconda lettura Paolo ci informa che la speranza in un mondo nuovo non delude perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori mediante lo Spirito santo che ci è stato dato. Questo Spirito è Dio stesso che ci interpella mediante l’esperienza umana di Gesù. La sua morte in croce, che va contro corrente rispetto al nostro egoismo (empietà), ci coinvolge e ci fa entrare in una logica diversa, quella della condivisione. Solo mediante l’amore vicendevole, infuso dallo Spirito e illuminato dalla memoria di Gesù, una comunità può dare a Dio il culto che gli è gradito.
L’acqua è un dono di Dio che non può essere negato a nessuno. Non esiste interesse nazionale che giustifichi l’appropriazione di un bene che appartiene a tutti. Ma anche in senso metaforico l’acqua, in quanto simbolo di salvezza, non può essere monopolizzata da nessuno. Essa può essere solo cercata e condivisa con tutti al di là di ogni barriera politica o religiosa.
Una Chiesa senza chiese
Se Dio è una grande re, come se lo immaginavano gli antichi, è necessario un palazzo con una sala del trono dove egli possa ricevere gli omaggi dei suoi sudditi ed esaudire le loro richieste. E difatti nell’antico Israele il tempio, sia che si trovasse a Gerusalemme o fosse costruito sul monte Garizim, era il luogo in cui i fedeli si riunivano per incontrare Dio, lodarlo, offrire sacrifici e chiedere grazie per sé e per tutto il popolo.
Anche Gesù immaginava Dio come un re che presto avrebbe instaurato il suo regno in tutto il mondo. Degno erede dei profeti, egli pensava però al Dio fedele, che esercita la sua regalità instaurando la giustizia e la solidarietà fra tutti i membri del suo popolo. In chiave mitologica, Dio resta dunque anche per lui un re a cui bisogna offrire il proprio culto, non però con riti, formule o richieste varie. Dai suoi figli Dio si aspetta un culto in «verità», cioè, nel linguaggio biblico, un culto in cui celebrano la sua fedeltà con gesti che esprimono la loro fedeltà vicendevole.
Il culto proposto da Gesù si attua anche in «spirito», cioè accogliendo il soffio di Dio. È strana l’immagine di un Dio che soffia, ma serviva agli antichi per presentare Dio come un mistero inaccessibile, che però si manifesta e agisce nel soffio vitale che muove questo mondo e in modo speciale la creatura umana. Dare culto a Dio significa allora scoprire in se stessi questo soffio vitale e lasciarsi guidare da esso.
Ma Paolo dice qualcosa di più: mediante il soffio di Dio è stato riversato nei nostri cuori il suo amore per noi. A volte l’esperienza sembra negare l’amore di Dio. Ma Dio non ci ama come un buon papà che toglie le castagne dal fuoco ai suoi figli. Il suo amore consiste nel farci scoprire la nostra dignità umana, in forza della quale siamo partecipi della sua potenza creatrice. Praticare il culto in spirito e verità significa dunque per i credenti saper cogliere il dono dello Spirito, diventando membra vive di una comunità che, nel ricordo di Gesù e alla sua scuola, si batte perché sia riconosciuta la dignità di ogni essere umano.
Quando parlo di salvezza non mi riferisco a un qualche premio che mi viene dall’esterno. Diciamo sempre che il regno di Dio è qui e per me salvezza significa sentire di vivere bene in questo regno. La religione, non solo non mi dà la salvezza, ma oggi se la vivo seguendone passivamente tutti i condizionamenti, rischio di non cogliere il senso profondo della vita e delle cose che accadono. Io penso che siamo arrivati a un bivio: le religioni sono forme storiche, contingenti, mutevoli e spesso ostacolo e freno per lo spiegarsi della spiritualità che è una dimensione che ha sempre accompagnato l’essere umano. Le religioni sono giovani e possiamo dire che l’umanità ha vissuto più senza religioni che imbrigliata in condizionamenti, dogmi, pronunciamenti di assolutezza. Forse oggi, nell’età moderna, è più difficile capirle; in un mondo multiculturale e globalizzato, una religione, circoscritta in un mondo tutto suo, non potrà costituire un riferimento assoluto per tutti. Per questo dobbiamo aiutarci a far nascere nuove forme che sviluppino in pienezza la nostra dimensione spirituale. E per spiritualità intendo una tensione verso il trascendente che si esprime nella libertà, non è ripetizione di gesti tradizionali pensati da altri, ma la consapevolezza e la fiducia di poter creare qualcosa che prima non c’era. La libertà è la nostra ricchezza, ma è anche un grosso rischio, per questo va ordinata e disciplinata con cammini volti alla ricerca del se profondo, del benessere interiore e del senso dell’esistenza. Quel riferimento di Sandro “all’interno del proprio gruppo” per me significa che solo insieme, in piccole comunità di persone e, per ricordare Martini, “più pensanti” che “credenti” potremo forse aiutare l’evoluzione della dimensione religiosa, dove vivere la religiosità non significa però vivere la religione; e penso che questo potrebbe portarci a scoprire il sacro nella nostra società e nelle tante possibili esperienze di vita, colmando sempre di più le distanze tra credenti e non credenti in una nuova appartenenza comunitaria.