Cristo Re C
La festa di Cristo re offre ogni anno l’occasione per mettere a fuoco il significato della regalità che i primi cristiani hanno riconosciuto a Gesù attribuendogli l’appellativo di Cristo. Infatti il titolo di re è sinonimo di Messia, unto (in greco christos), in quanto i re di Israele venivano intronizzati con il rito dell’unzione. Le letture di oggi ci aiutano a comprendere meglio la regalità di Gesù e a eliminare i malintesi a cui questo titolo ha dato origine.
Nella prima lettura viene riportata la notizia dell’unzione di Davide come re d’Israele. In questo testo si nota una parvenza di democrazia, in quanto sono gli anziani di Israele che si recano da Davide per insignirlo della regalità. La loro scelta ricade su di lui in seguito alla constatazione che già Dio si era espresso precedentemente in suo favore mediante l’unzione regale conferitagli da Samuele (1Sam 16.12-13). Essi inoltre fanno un’alleanza con Davide: in tal modo pongono anche delle condizioni che il re dovrà osservare. Davide sarà quindi il rappresentante di Dio in mezzo al popolo, ma dovrà stare ai patti e non prevaricare imponendo un giogo troppo pesante ai suoi sudditi.
Nel brano del vangelo si affronta il tema della regalità del Messia, il discendente del re Davide. Gesù è ormai in croce e sia i soldati che uno dei malfattori crocifissi con lui gli dicono: «Se tu sei il re dei giudei, salva te stesso». In queste parole affiora la concezione secondo la quale il re deve pensare anzitutto a se stesso, a difendere il suo potere e i suoi privilegi nei confronti dei propri nemici. Il «buon ladrone» invece si rende conto che Gesù è veramente re, ma in un modo diverso: egli è innocente e la sua morte ha a che fare con il suo regno. Perciò esprime il desiderio di entrare in questo regno e viene esaudito. La regalità di Gesù è dunque radicalmente diversa da quella dei potenti di questo mondo. Gesù muore come re, ma proprio in quanto ha rinunziato al potere e ai privilegi della condizione regale per attuare la salvezza dell’umanità, cominciando proprio dai lontani e dagli esclusi.
La seconda lettura mette in luce le prerogative della regalità di Cristo. In essa l’autore afferma che Dio ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio amato, per mezzo del quale abbiamo ottenuto il perdono dei peccati. Riconciliando l’umanità con Dio, Gesù è diventato il capo del corpo, che è la Chiesa. Proprio per questo è riconosciuto retrospettivamente come colui che ha collaborato con Dio all’opera della creazione.
A Gesù è stata attribuita simbolicamente dai primi cristiani la regalità universale in quanto ha saputo dare la vita per la realizzazione del regno di Dio, cioè per l’attuazione di un mondo migliore. Dai suoi discepoli Gesù si aspetta non atti di culto o di devozione ma l’impegno a seguirlo e a collaborare con lui per migliorare il mondo in cui viviamo.
Se c’era un nome che male calzava con la personalità di Gesù era proprio quello di Cristo (=Messia=Re) sia perché lui stesso in vita l’aveva rifiutato sia perché non ha mai fatto qualcosa che corrispondesse a questo nome. Infatti lui stesso ha detto di non essere venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita per il riscatto di tutti, cominciando dagli ultimi. Se avesse preteso di essere re, proprio il tipo di morte che ha fatto lo avrebbe sconfessato. Forse i primi cristiani, chiamandolo Cristo-Re, hanno inteso dare alla regalità un senso diverso. Tant’è. Ma le parole hanno spesso un effetto magico e l’umile servitore dei poveri è diventato un re assiso in un trono celeste, che regna su tutta l’umanità. E come? Guarda caso, proprio per mezzo di quei discepoli, due dei quali gli avevano chiesto di sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nel suo regno. Non è una bella storia quella di un potere che si dichiara spirituale e pretende di dominare sui re di questo mondo. E oggi ancora cerca di ritagliarsi ambiti di società civile in cui esercitare un potere in nome di Dio. Ma forse oggi il problema non è più quello di un potere religioso che voglia interferire nella vita sociale, ma il fatto stesso che esista un tale potere. Nella Chiesa cattolica questo tema è stato posto sotto il nome di sinodalità, che, in parole povere, non significa altro che questo: camminare insieme, cioè condividere. E la condivisione comporta il rifiuto di un potere, cioè di un’autorità che viene dall’alto. È vero, ogni aggregazione umana richiede un’autorità, ma un conto è l’autorità di chi coordina e un conto quella di chi comanda. E questo a tutti i livelli, dal più basso al più alto. E allora non dovremmo più avere preti, vescovi, papa? Non necessariamente. Se è vero che lo Spirito agisce nella comunità dei credenti, non è l’autorità che deve essere eliminata, ma piuttosto deve essere cambiato il modo di esercitarla e di selezionare coloro che la ricoprono, partendo dal basso e non dall’altro. Può sembrare un’utopia, ma questo è l’unico modo in cui la Chiesa può influire sulla società: diventando un ambito di formazione alla partecipazione, cioè alla democrazia. Allora per affermare il ruolo di Gesù nella società non sarà più necessario proclamarlo «Cristo Re», perché sarà l’esempio dei suoi seguaci a far defluire il suo messaggio di pace e di giustizia in tutti gli ambiti della vita sociale, contrastando ogni tipo di potere, anche quello di chi crede di poterlo fondare su madonne, crocifissi o corone del rosario.
Contrariamente all’esempio di Gesù che fonda il suo regno sull’amore, sulla misericordia, la Chiesa questa immensa, potente istituzione che dice essersi fondata sul Sua parola, specie da Costantino in poi, davvero non può dirsi sia
stata l’immagine del Suo Regno.
L’ immensa schiera di Santi, questi sì fondati sulla Sua parola, ne hanno tenuto vivo il suo messaggio.
Loro che come Gesù, sono passati pacificano, liberando, sanando…
Oggi, con Papa Francesco, questo grande profeta che ci è stato inviato, la Chiesa sembra finalmente percorsa da un vento nuovo nel quale tutti noi vogliamo sperare che torni a riconoscere, come allora duemila anni fa,” i segni di questi tempi.
Gesù non è un mito, è una figura storica (questo almeno per il mio cammino di ricerca) di cui è possibile infatti delineare alcuni tratti: l’origine, la data della nascita e della morte. Non una biografia completa in tutti i suoi passaggi, ma i primi testimoni probabilmente non nutrivano nessun particolare interesse per un’eventuale cronologia. E’ nel II secolo che cominciano rielaborazioni varie e, dalla storia, si passa al mito e Gesù diventa re.
Ma noi sappiamo che è un re crocifisso tra i malfattori, un re condannato dai poteri religioso e politico e che questo è il Gesù storico ed è questo Gesù che credo dobbiamo cercare, un uomo libero che dà la sua vita per cambiare il mondo, per farlo uscire dagli abituali e diffusi schemi di violenza e di potere.
E’ questo il regno di Dio cui si fa riferimento: un mondo diverso, giusto, ricco di quell’umanità che Gesù ha saputo esprimere e da cui, solo vissuta in questa pienezza, può trasparire il trascendente.