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Tutti i Santi

Una forma moderna di santità

Nella prima lettura è riportata una grande scena simbolica che rappresenta l’assemblea dei credenti gli ultimi tempi di cui la Chiesa è simbolo e anticipazione. In essa lo zoccolo duro è rappresentato dai giudei che hanno creduto in Cristo. Ad essi si uniscono i credenti provenienti da tutte le nazioni della terra. Essi vengono dalla grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello. Si tratta dei martiri, morti per la fede in Cristo. In quei tempi si era perseguitati a motivo della propria religione. Ma oggi appare chiaro che le persecuzioni più violente si scatenano quando uno affronta i problemi economici e politici alla ricerca non del proprio tornaconto, ma del bene di tutti. Nel saper essere coerenti con la propria scelta di vita sta oggi il vero martirio.

Nel vangelo si leggono le beatitudini, con le quali si apre il discorso della Montagna. È un testo sconvolgente perché afferma che la vera felicità non viene dal possesso delle cose materiali ma dalla capacità di condividere ciò che si possiede impegnandosi per la giustizia e la pace in tutto il mondo, pur con tutte le sue ambiguità e contraddizioni. Oggi c’è un bisogno fortissimo di persone che sappiano fare la scelta delle beatitudini. Essere santi non vuol dire eseguire dei riti o obbedire a particolari regole di vita. A ciascuno, e non solo ai suoi discepoli, Gesù richiede di seguirlo in mezzo a un mondo che segue tutt’altre vie, con lo scopo di dare culto a Dio facendo sì che i valori del vangelo entrino nella vita della società e la trasformino nel suo intimo.

Nella seconda lettura l’autore della lettera di Giovanni spiega che già fin d’ora noi siamo figli di Dio. E soggiunge che il mondo non ci conosce perché non ha conosciuto lui. Se noi entriamo veramente nella logica del vangelo non possiamo pensare di essere riconosciuti da questo mondo. Ma siamo riconosciuti da Dio perché abbiamo dato un senso alla nostra vita.

La santità non consiste nel difendere un’istituzione, i suoi dogmi e la sua morale. Dai cristiani ci si aspetta una testimonianza vissuta all’amore di Dio per tutta l’umanità, mediante la ricerca del bene di tutti, a cominciare dai più poveri e diseredati.

Tempo Ordinario C – 30. Domenica

Il pericolo dell’ipocrisia

Il tema delle letture scelte per questa domenica è la condanna dell’ipocrisia, quale appare nella parabola del fariseo e del pubblicano. Come sfondo di questo tema nella prima lettura sono riportate alcune massime di carattere sapienziale che riguardano il comportamento di Dio: egli è giudice imparziale, difende la causa del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso; non trascura la supplica dell’orfano e della vedova; chi soccorre quest’ultima è accolto da lui con benevolenza; la preghiera del povero arriva fino a Dio e provoca il suo intervento. Dio non può essere ingannato o strumentalizzato dalle pretese di chi si ritiene suo amico e rappresentante.

Nel brano del vangelo, Luca introduce la parabola del fariseo e del pubblicano sottolineando che essa è un’ammonizione rivolta a persone che presumevano di essere giuste e disprezzavano gli altri. Questa categoria di persone è rappresentata da un fariseo che si ritiene «giusto», cioè un fedele devoto e osservante della legge. Lui stesso ne enumera i motivi: paga la decima di ogni cosa mentre, secondo la legge, grano, mosto e olio sono esentati da tale balzello; digiuna due volte ogni settimana mentre la legge prescrive il digiuno solamente una volta all’anno, nel giorno dell’Espiazione (Kippur), e inoltre si astiene dal furto, dall’adulterio e dalle ingiustizie. Una figura esemplare! Ma ha una caduta di stile quando si confronta con gli altri e in particolare con il pubblicano. Questo suo comportamento solleva un groviglio di domande: che cosa crede di essere? Perché racconta a Dio le sue prodezze? Che cosa si aspetta? Ha fatto tante cose buone ma non ha imparato l’essenziale, cioè l’amore per i fratelli. Diverso è l’atteggiamento del pubblicano. I pubblicani erano gli agenti del fisco al servizio dei romani, si arricchivano a spesa dei loro connazionali ed erano considerati come i peccatori per eccellenza. Il pubblicano della parabola aveva dunque forti motivi per battersi il petto e riconoscersi peccatore. Non cerca di giustificarsi ma riconosce la sua situazione e chiede perdono. Gesù non commenta ma si limita a dire che il pubblicano, e non il fariseo, è riconosciuto da Dio come giusto. Le parti si sono invertite: Dio preferisce un peccatore che si riconosce tale a un rigido osservante che si ritiene giusto.

Dalla seconda lettura risulta che Paolo, dopo aver combattuto la buona battaglia, si aspetta da Dio la corona di giustizia, cioè di essere riconosciuto come giusto da Dio.  Egli era un uomo impegnato nell’evangelizzazione, che ha dedicato la sua vita agli altri, fino al punto di essere portato in giudizio, e ha avuto il coraggio di essere fedele anche quando è stato abbandonato da tutti. Ma non si vanta di essere giusto: solo Dio può riconoscerlo come tale.

Il fariseo e il pubblicano sono figure ben presenti non solo nella società e nella Chiesa ma anche in ciascuno di noi. A quale delle due diamo la preferenza? Per saperlo basta guardare come ci situiamo nei confronti degli altri. Non basta vantarsi delle proprie buone azioni. Solo chi non si ritiene superiore agli altri ma riconosce i propri limiti e implora la misericordia di Dio è in grado di compiere la sua volontà nel modo giusto, cioè amando il proprio prossimo. Da ciò derivano importanti conseguenze su cui Luca ci chiamerà a riflettere nel racconto della conversione di Zaccheo che leggeremo domenica prossima.









Tempo Ordinario C – 27. Domenica

Fede e merito

Le tre letture riportate dalla liturgia mettono in luce il tema della fede.  Nella prima lettura il profeta Abacuc, dopo essersi interrogato circa il comportamento di Dio nelle terribili situazioni in cui il popolo sta vivendo, riceve da Dio una risposta che deve essere conservata con la massima cura, per verificarne la realizzazione. Essa consiste in una minaccia per l’empio e una promessa per il giusto: il primo è destinato a perire mentre il giusto, in forza della sua fede, vivrà. In altre parole, di fronte alla sventura solo il giusto sopravvivrà perché ha fiducia in Dio. La fede consiste dunque nel fidarsi di Dio, ricercando ciò che è bene e ciò che è giusto, sapendo che alla fine il suo progetto si realizzerà. Chi ha questa fede saprà affrontare anche le peggiori disgrazie senza soccombere.

Questo messaggio si collega con quello del vangelo. Gesù afferma l’importanza della fede, di cui sottolinea l’efficacia in vista del regno di Dio. Essa non consiste tanto in verità da accettare senza una verifica della ragione, e neppure nella sicurezza che Dio esaudirà le proprie richieste, quanto piuttosto in una fiducia totale in lui e nella sua provvidenza. È questa fede che aiuta a non soccombere alle prove della vita, ma piuttosto a farne un’occasione di crescita e di amore verso il prossimo. Sulla stessa linea si pone la parabola del servo inutile. Essa non mira certo a presentare Dio come un padrone autoritario e privo di considerazione verso i suoi figli. Ciò che Gesù vuole sottolineare è che la fedeltà a Dio, che si manifesta nella pratica delle buone opere, non comporta per sé il diritto a una ricompensa da parte di Dio. In altre parole il bene è fine a se stesso, cioè deve essere compiuto perché è bene, non per avere un merito di fronte a Dio o agli uomini. Dopo aver fatto tutto ciò che la sua fede gli ispirava, il discepolo deve abbandonarsi totalmente alla misericordia gratuita di Dio cercando di scoprire il suo agire misterioso nelle vicende di questo mondo.

Nella seconda lettura si riprende il tema della fede. L’autore, a nome di Paolo, esorta Timoteo a ravvivare il dono di Dio che è in lui. E specifica che Dio gli ha conferito il suo Spirito che non è causa di timidezza ma di forza, di carità e di prudenza. E lo invita a soffrire con lui per il vangelo seguendo gli insegnamenti che ha ricevuto da lui. 

La fede non consiste nell’accettare a occhi chiusi determinate dottrine e neppure nell’aspettarsi interventi miracolosi da parte di Dio o un premio per le proprie buone azioni. Aver fede significa invece mettere al centro della propria vita la ricerca del Bene in tutte le sue manifestazioni. Dio è amore e solo chi crede nell’amore è un vero credente.