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Tempo di Pasqua C – 5. Domenica

L’amore vicendevole

Il tema di questa liturgia è suggerito dal brano del vangelo, nel quale Gesù dà ai suoi discepoli il comandamento dell’amore. In questa prospettiva è molto significativa l’esperienza di Paolo e Barnaba raccontata dagli Atti degli apostoli, di cui parla prima lettura. I due missionari, annunziando il vangelo, si sono dedicati anima e corpo alla fondazione di comunità cristiane i cui membri seguono l’esempio di Gesù. È nella comunità che, come in una famiglia affiatata, si scopre la bellezza dell’amore reciproco.

Nella lettura del vangelo il tema dell’amore viene portato in primo piano. Nell’Antico Testamento era già comandato l’amore del prossimo. Ma secondo Giovanni, Gesù ha detto qualcosa di più, ha parlato di un comandamento nuovo. Questa novità consiste anzitutto nel fatto che l’amore proposto da Gesù, sulla linea tracciata dai grandi profeti dell’esilio, è solo impropriamente un comandamento. L’amore è un dono che Gesù fa ai suoi discepoli, comunicando loro il suo Spirito. Inoltre questo amore non si identifica semplicemente con l’amore del prossimo in quanto è un amore vicendevole, cioè un amore donato e ricambiato; esso infatti ha la sua origine nel rapporto che Gesù ha con il Padre, nel quale i discepoli sono coinvolti, imparando così ad amarsi gli uni gli altri. Per il credente la pratica dell’amore anticipa la realizzazione finale del progetto di Dio per l’umanità del quale si parla nella seconda lettura.

La Gerusalemme che scende dal cielo è simbolo dei cieli nuovi e della terra nuova che Dio creerà alla fine dei tempi. Allora non ci saranno più lutti e sofferenze e Dio sarà tutto in tutti. Chiaramente si tratta di un’immagine, la quale però aiuta a capire verso che cosa deve tendere l’amore vicendevole dei discepoli. Il mondo nuovo che verrà realizzato da Dio alla fine dei tempi non è altro che il modello a cui i credenti devono tendere impegnandosi per attuare una società più giusta e solidale.

Dal confronto fra le tre letture di questa domenica appare chiaro che il cristianesimo non è una ideologia, cioè in una serie di dogmi, di riti e di precetti morali, da accettare e praticare, nell’ingenua convinzione che così facendo possiamo piacere a Dio. Al contrario, esso consiste in un rapporto nuovo tra persone che condividono la stessa fede in Gesù, il quale le coinvolge nel suo rapporto di amore con il Padre. È l’amore vicendevole che dà origine alla comunità cristiana, la quale si qualifica come una scuola nella quale i cristiani, amandosi fra loro, imparano ad amare il prossimo, dal quale non possono attendersi sempre un ricambio, o addirittura il nemico, dal quale questo ricambio è escluso in partenza. L’amore vicendevole rende i discepoli capaci di impegnarsi perché la società in cui vivono si avvicini sempre più a quelle che sono le caratteristiche della Gerusalemme celeste.

Tempo Ordinario C – 07. Domenica

Amore dei nemici e non violenza

In questa domenica la liturgia propone di riflettere sul tema della non violenza. Nella prima lettura si raccontano le vicende del futuro re Davide il quale è perseguitato dal re Saul che vuole eliminarlo. Davide fugge e, quando si presenta l’occasione di uccidere il suo avversario, lo risparmia. Per lui Saul è comunque il suo re ed egli sente il dovere, se non proprio di amarlo, almeno di rispettarlo e difendere la sua vita. È questo un significativo esempio di non violenza.

Nel brano del vangelo sono riportati alcuni detti nei quali si pone l’accento sulla necessità di amare non solo le persone care ma anche i propri nemici. Gesù non distingue tra nemici personali, cioè quanti in qualche modo ci fanno del male, e coloro che trasgrediscono le leggi religiose e sociali e infine i nemici del proprio popolo, identificati soprattutto con gli odiati romani, stranieri, pagani e oppressori. Nei confronti di tutti Gesù esige anzitutto che si eviti di reagire alla violenza di cui si è fatti bersaglio con altrettanta violenza. Ma Gesù non si ferma qui: egli vuole una non violenza attiva. Per questo invita a fare nei confronti degli altri, di tutti, anche degli estranei e dei nemici, quello che ciascuno vorrebbe fosse fatto a sé. È questa la regola d’oro, attestata nelle culture più disparate. Poi Gesù sottolinea che il vero amore esige la gratuità, cioè la disponibilità ad amare senza aspettarsi nulla in cambio. Il discepolo di Gesù deve imitare l’esempio di Dio che è misericordioso verso i gli ingrati e i malvagi. E misericordia vuol dire non giudicare e soprattutto perdonare, accettare le persone come sono, senza pretendere nulla. Gesù assicura che, così facendo, si riceve molto più di quello che si è dato. Non in termini di vantaggi o di ricompense, in questa o nell’altra vita, ma come realizzazione di quel bene comune che egli chiama «regno di Dio».

Nella seconda lettura Paolo presenta Gesù come il nuovo Adamo, cioè il capostipite di una nuova umanità liberata dal condizionamento della materia che, secondo le concezioni del tempo, era la sede del peccato. Gesù è risuscitato perché è colui che ha percorso per primo la strada di un amore non violento. Aderire a lui significa superare il proprio egoismo e mettersi al servizio degli altri, chiunque essi siano.

La tentazione di ogni essere umano è quella di chiudersi nel proprio piccolo mondo rappresentato dai familiari, dagli amici, dai propri concittadini e, perché no, dai membri della comunità cristiana. In questa prospettiva è spontaneo considerare l’altro, il diverso, lo straniero come un pericolo per la propria identità, per il proprio benessere oppure magari per la propria fede. Di qui sorgono non solo le guerre ma anche i muri, quelli fatti di cemento o quelli che portano all’emarginazione dell’altro. Per questo l’insegnamento di Gesù ha importanti ricadute anche in campo sociale e politico, dove è necessario superare il desiderio di vendetta è impegnarsi per il perdono e la riconciliazione .

Tempo Ordinario C – 05. Domenica

Una chiamata per la missione

La liturgia di questa domenica affronta il tema della vocazione in quanto chiamata alla presidenza della comunità. Nella prima lettura la vocazione di Isaia viene situata significativamente nel tempio di Gerusalemme, che era la più importante struttura istituzionale di Israele. Chi gli appare è il Dio di Israele, al quale esso era dedicato. Non viene quindi messo in questione il tempio in quanto tale, ma il popolo dalle labbra impure al quale Isaia sa di appartenere. Egli viene purificato e solo allora viene inviato a questo popolo per chiamarlo alla conversione.

Anche nel vangelo appare che Pietro, davanti alla manifestazione di Dio in Gesù, si riconosce come peccatore. Diversamente da quanto era capitato a Isaia, Gesù non fa nessun gesto di purificazione su di lui, ma gli dice di non temere e gli dà il compito di essere pescatore di uomini. Per Pietro la vittoria sul peccato, nel quale lui stesso è coinvolto, non può avvenire mediante gesti rituali ma solo diventando pescatore di uomini. Questa espressione in Luca significa letteralmente «uno che prende vivi gli uomini». Per Luca è importante sottolineare che per attirare gli uomini a Cristo, Pietro non dovrà fare come i pescatori che, prendendo i pesci, li uccidono, ma dovrà mantenere vivi coloro a cui si rivolgerà, potenziando le loro facoltà umane di intelligenza e di libertà. Quindi non dovrà essere semplicemente un leader istituzionale, preoccupato del buon funzionamento dell’istituzione di cui è responsabile, ma una figura profetica, capace di coinvolgere gli altri nella sequela di Gesù al servizio di tutta la società.

Nella seconda lettura Paolo spiega in che cosa consista l’oggetto della fede che egli ha annunziato ai corinzi: si tratta essenzialmente della liberazione dal peccato, che Cristo ha attuato mediante la sua morte e risurrezione. Su questa linea si pone anche lui con il suo apostolato instancabile nella fondazione di comunità nelle quali si manifesti la nuova vita portata da Gesù.

L’eliminazione del peccato, che si annida nei cuori e nelle strutture ingiuste della società, è stato il vero scopo della predicazione di Gesù e il motivo per cui è stato ucciso. La lotta contro il peccato così inteso è anche l’unica ragione che giustifica l’esistenza della Chiesa. Perciò chi riceve un compito direttivo al suo interno non deve essere interessato unicamente alla sua difesa e preservazione ma deve guidarla nell’impegno per realizzare una società più giusta e solidale. Per questo deve essere autorevole senza essere autoritario, esercitando il ruolo profetico che non deve mai mancare in un’istituzione che ha il compito di annunziare, come ha fatto Gesù, non se stessa ma la venuta del regno di Dio.