Tempo di Pasqua C – 2. Domenica
La liturgia di questa domenica mette in luce il tema della liberazione dal peccato che Gesù risorto continua ad attuare per mezzo dei suoi discepoli. Nella prima lettura si dice che, dopo la sua risurrezione, i suoi discepoli gli hanno reso testimonianza, e lo hanno fatto non con discorsi altisonanti ma attuando un profondo rapporto comunitario e seguendo il suo esempio, cioè guarendo le malattie e lottando contro ogni genere di male che colpisce la gente comune, soprattutto i più poveri ed emarginati.
Nel brano del vangelo è Giovanni che, raccontando l’apparizione di Gesù risorto ai discepoli, indica il compito che egli ha affidato loro. Ciò che essi dovranno fare si sintetizza in due parole: perdonare i peccati. Questo compito si attua mediante una guarigione che parte dalla persona e si espande a tutta la società. Il perdono dei peccati significa infatti aiutare le persone a superare i sentimenti di violenza che si annidano nel cuore umano. Per fare ciò i discepoli dovranno suscitare la fede in un progetto d’amore che parte dall’Alto e creare rapporti nuovi improntati all’amore. Ciò è possibile solo dando origine a un movimento di liberazione da tutte le strutture ingiuste che si esprime mediante la formazione di comunità basate sulla fede. Si tratta di un compito difficile da attuare: perciò Gesù conferisce ai discepoli il suo Spirito, che consiste in una convinzione profonda che fa superare ogni difficoltà. E come risultato Gesù promette la pace che dal cuore dei credenti si espande a tutta la società. In questo contesto è importante la figura simbolica dell’apostolo Tommaso, il quale giunge alla fede solo dopo aver visto Gesù risorto. Chiaramente si trattava non semplicemente di riconoscere che Gesù è vivo ma di credere che il suo progetto di liberazione da ogni forma di male non era stato accantonato, ma sarebbe stato portato avanti da lui per mezzo dei suoi discepoli.
Nella seconda lettura è significativo il modo in cui Gesù si presenta a Giovanni: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi». Questa frase mostra come sia possibile impegnarsi per la vita, in tutte le sue manifestazioni, perché Gesù, il Vivente, è con noi.
Dalle letture di questa domenica risulta che il cristianesimo porta nel suo DNA la lotta contro il potere del male in questo mondo, dovunque si annidi, sulla linea di quanto ha fatto e ha detto Gesù e sotto la sua guida. Il perdono dei peccati non avviene mediante un gesto rituale ma consiste nell’impegno per la guarigione delle anime e dei corpi in funzione della liberazione di tutta la società dalle strutture ingiuste che pervadono i rapporti tra persone. È un compito difficile, che richiede di saper coordinare i propri sforzi con quelli di tutti gli uomini e donne di buona volontà, sotto la guida di un Maestro come Gesù e con la forza che viene dal suo Spirito.
La forza dirompente della fede
Tommaso l’incredulo… nella realtà o solo nella fantasia di chi ha raccontato la sua vicenda? Un racconto che non trova conferma da nessuna parte e ha chiaramente l’aspetto di un espediente per spiegare che il dubbio è legittimo, ma che bisogna superarlo per dare posto alla fede. Ma la fede in che cosa? In un morto che è tornato in vita, fisicamente, con il suo corpo, ma dotato addirittura della prerogativa di passare attraverso i muri? In realtà credere una cosa del genere è una sfida, anche per persone facilmente suggestionabili. E non credo che l’esempio di Tommaso sia sufficiente per convincere i dubbiosi di oggi.
Dunque credere, non in un morto che torna in vita, ma in qualcosa di ancora più incredibile, e cioè che la morte violenta di un uomo possa portare la pace, vincendo il peccato che continuamente mina la convivenza umana: un peccato che si identifica con la violenza che impregna di sé le persone e le istituzioni. E per di più, la convvinzione che l’uomo violentato possa lasciare ai suoi seguaci il compito di vincere la violenza, con la consapevolezza che, se non lo faranno loro, la violenza continuerà a dilagare.
Alla fine, secondo l’evangelista, Tommaso ha creduto. Ma che cosa hanno fatto i primi cristiani per dare effetto alla loro fede? Tra i mezzi a disposizione hanno scelto quello apparentemente più inefficace, lo stesso adottato da Gesù, che consiste nella non violenza. In fondo è vero: se combatto la violenza con la violenza, divento anch’io un violento e contribuisco anch’io non all’eliminazione della violenza ma alla sua propagazione. Ma combattere la violenza con la non violenza esige spesso un prezzo considerevole, che può arrivare fino alla morte. Eh, sì, ci vuole una buona dose di fede e coraggio per inoltrarsi su questa strada.
Ed ecco allora per i credenti la necessità di non combattere da soli, ma di creare aggregazioni di persone che hanno fatto la stessa scelta. Non solo per sostenersi a vicenda, ma per fare, loro per primi, l’esperienza di quella pace che vogliono proporre a tutto il mondo. E il collante non può essere che lui, il primo e l’ultimo, come dice l’autore dell’Apocalisse. Non tanto perché lui ci ha creduto per primo, ma perché ha fatto emergere nel cuore dei suoi seguaci quei sentimenti che provocano la pace.
L’idea di un perdono dei peccati che gli apostoli dovrebbero attuare per incarico di Gesù risorto provoca un senso di disagio perché richiama il tema della confessione che oggi suscita reazioni spesso negative. Le parole di Gesù devono essere lette però non in funzione di una pratica penitenziale adottata dai cristiani diversi secoli dopo la sua morte ma all’interno del vangelo in cui esse sono riportate. All’inizio del quarto vangelo Giovanni Battista ha definito Gesù come «l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). Questo peccato si identifica con un potere diabolico che pervade questo mondo e consiste nel prevalere dell’ingiustizia e della violenza nei rapporti sociali: questo potere viene personificato e riceve l’appellativo di «principe di questo mondo» (Gv 12,31). Con i suoi gesti e le sue parole Gesù ha combattuto contro questo potere e l’ha vinto nel momento stesso in cui sembrava soccombere sotto i suoi attacchi. Ora egli dà ai discepoli il compito di combattere questa stessa battaglia in modo non violento lungo tutto il corso della storia. Questa lotta consiste nel formare comunità alternative in cui predomina non l’ingiustizia ma l’amore e i cui membri si impegnano a trasformare la società in cui vivono. Si tratta di un grande progetto formativo, che la chiesa ha spesso disatteso. A volte ci coglie un senso di impotenza. Ma l’esperienza di Tommaso mostra che si può avere una speranza di riuscita in forza della fede in Gesù, il quale attesta che proprio attraverso la morte, accettata per amore, si raggiunge la vita vera.