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Tempo Ordinario A – 31. Domenica

Non padri ma fratelli

Nella prima lettura il profeta Malachia indica il tema di questa liturgia che consiste nella fraternità che deve realizzarsi all’interno di una comunità cristiana. Il profeta accusa i sacerdoti, capi religiosi di Israele, di aver deviato dalla retta via e di essere stati d’inciampo a molti. Ciò avviene quando il ministro di una comunità la gestisce in modo dispotico, in funzione dei propri interessi. Il profeta aggiunge: «Non abbiamo forse tutti noi un solo padre?». Di fronte a Dio tutti i credenti sono uguali. Il capo religioso deve dunque mettersi al servizio di una vera fraternità. Ma ciò è possibile solo se anche i semplici credenti assumono un ruolo attivo nella comunità. 

Nel vangelo Gesù è molto drastico: sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Pongono sulle spalle della gente fardelli che loro non toccano neppure con un dito. Fanno tutto per essere ammirati, adottano abbigliamenti speciali, cercano i primi posti, vogliono essere salutati e chiamati rabbi dalla gente. Ce n’è abbastanza per caratterizzare una categoria di persone che non sono a servizio della comunità ma si servono della religione per i propri interessi. Così facendo favoriscono non l’amore di Dio e del prossimo ma il culto della propria personalità. Da qui hanno origine tante distorsioni religiose che sfociano nei surrogati della vera fede, cioè nel devozionalismo e spesso nella superstizione. Perciò Gesù invita i suoi uditori a fare quello che dicono ma non a imitare quello che fanno. Poi, rivolgendosi ai suoi discepoli, li esorta a non farsi chiamare rabbi, maestri, guide, perché uno solo è il loro Maestro ed essi sono tutti fratelli. Le guide religiose non devono sentirsi al di sopra dei semplici fedeli ma devono essere operatori di fraternità. E ai fedeli spetta il compito di ritrovare la propria dignità di figli di Dio: ciò significa non delegare a nessuno la propria ricerca religiosa, mantenendosi aperti e disponibili verso tutti quelli che cercano Dio, a qualunque religione, popolo o cultura appartengano.

Nella seconda lettura Paolo presenta l’ideale del vero leader religioso che consiste nell’amare la propria gente e mescolarsi con essa, condividendone il lavoro, le gioie, le sofferenze e le difficoltà della vita. Solo così potranno comunicare la «parola di Dio» che è tale perché non resta alla superficie ma penetra nel cuore. Ma ciò esige scambio, comunicazione, dibattito. La parola di Dio non consiste infatti in un complesso di verità astratte, definite una volta per tutte, ma in un messaggio capace di coinvolgere le persone di trasformare la loro vita.

Siamo in un periodo in cui tanti abbandonano la pratica religiosa. Spesso si attribuisce questo esodo a un materialismo pratico che esclude il soprannaturale. Ma ciò è dovuto piuttosto a una struttura in cui tutto viene dall’alto, senza coinvolgere le persone nella ricerca di una spiritualità per i nostri tempi. Perciò sono i leader religiosi che per primi dovrebbero mettersi in questione per imparare ad animare la ricerca di fede di quanti sono loro affidati, senza dare nulla per scontato e avendo come punto di riferimento il vangelo e come unico scopo la fraternità. 

Tempo di Pasqua A – 4. Domenica

Il pastore e il gregge

La liturgia di questa domenica propone il tema di Gesù buon Pastore e di riflesso ci invita a riflettere sul ministero nella Chiesa. Nella prima lettura viene riportata la conclusione del primo discorso missionario fatto da Pietro nel giorno di Pentecoste e poi la reazione da parte della gente. Pietro annunzia che Dio ha costituito come Signore e Cristo quel Gesù che essi hanno crocifisso. Gesù esaltato è l’unico pastore della comunità. Perciò Pietro invita gli ascoltatori a convertirsi e ricevere il battesimo, cioè ad accogliere Gesù come guida e a esprimere mediante il Battesimo il rapporto con lui. E infine li esorta a salvarsi da questa generazione perversa: ciò non significa fuggire dal mondo ma operare per trasformare alla luce del Vangelo la società in cui si vive.

Nel brano del vangelo, secondo l’evangelista Gesù esprime il suo rapporto con chi lo segue alla luce di quello che è il rapporto tra il pastore e le pecore del gregge. In quanto pastore, Gesù «chiama le pecore una per una e le porta fuori dal recinto», cioè stabilisce con i suoi discepoli un rapporto personale che si basa sulla conoscenza vicendevole. In altre parole non dà ordini e direttive, ma apre con loro uno scambio che li porta a una crescita comune nella solidarietà. Egli «cammina innanzi a loro», vivendo lui per primo in sintonia con il suo messaggio, invitandoli a seguirlo e a camminare senza paura. Gesù li mette in guardia dai falsi pastori che fanno i propri interessi e non si prendono cura delle pecore: sono persone che invece di servire la comunità si servono di essa. Gesù si presenta anche come la porta, cioè come colui che non solo introduce coloro che lo seguono al rapporto con Dio ma lo realizza in se stesso, diventando lui il nuovo tempio di Dio.

Nella seconda lettura Pietro propone l’esempio di Gesù, definito come pastore e custode delle nostre anime: a lui attribuisce un atteggiamento radicale di non violenza. È questa la modalità con cui il Pastore guida il suo gregge

In una comunità cristiana l’unico pastore è Gesù e tutti i suoi membri devono sentirsi come fratelli e sorelle che interagiscono in forza della loro fede e del loro rapporto con Gesù. Coloro che ricevono un ministero comunitario sono pastori solo in senso analogico, in quanto strumenti dell’unico Pastore. Nella comunità essi non hanno un posto privilegiato ma semplicemente un compito specifico, che è quello di rappresentare al vivo l’unico Pastore.