Tempo Ordinario A – 23. Domenica
La prima lettura indica come tema della liturgia la responsabilità del profeta nei confronti di tutto il popolo e di ciascuno dei suoi membri. Egli è come una sentinella che deve avvertire la città del pericolo che si avvicina. È possibile che tutto il popolo o qualcuno dei suoi membri, magari chi ha responsabilità di governo, vada fuori strada e il profeta lo venga a sapere da Dio stesso oppure dalla sua coscienza illuminata dalla fede. Il suo compito è allora quello di intervenire e di segnalare il pericolo che si avvicina: se lo fa, lui è salvo, qualunque sia la reazione degli interessati, altrimenti sarà il primo a pagarne le conseguenze. Il compito del profeta è essenziale per il buon funzionamento di una comunità: se il profeta viene meno alla sua missione o non viene ascoltato, la comunità si disgrega.
Nel brano del vangelo questo principio è applicato alla comunità cristiana. In esso si tratta direttamente della lite tra due membri della comunità, uno dei quali si sente oggetto di un’ingiustizia da parte dell’altro. Chi ritiene di aver ricevuto un torto potrebbe tacere, magari per compassione nei confronti di chi gliel’ha inflitto o per quieto vivere. Secondo Matteo Gesù disapprova questo atteggiamento. Chiudendo gli occhi sul torto ricevuto si pone la premessa di una ripetizione dell’abuso a danno di altre persone e di tutta la comunità. Perciò se il richiamo personale a chi ha sbagliato non ha effetto, alla fine è tutta la comunità che deve essere coinvolta e che deve dare un giudizio definitivo. I due detti riportati successivamente da Matteo, in questo particolare contesto mettono in luce due aspetti complementari del dovere di correggere chi sbaglia: da una parte la comunità deve prendere decisioni conformi alla volontà di Dio, al quale spetta in ultima analisi il compito di ratificarle; dall’altra essa deve agire in sintonia con l’insegnamento di Gesù, intorno al quale essa è convocata, specialmente nel contesto della preghiera comune.
Nella seconda lettura si parla di amore vicendevole. Questo amore deve essere rivolto alla ricerca del bene comune. Perciò è importante, quando si sente il dovere di intervenire nei confronti di un membro della comunità, chiedersi non solo qual è il bene in assoluto, ma qual è la decisione più valida anche per il bene di chi ha sbagliato.
Le parole attribuite da Matteo a Gesù non devono essere utilizzate come motivazione per delazioni e condanne che portano a emarginare certe persone solo perché hanno idee diverse dalle proprie. Tuttavia è importante che, quando si viene a conoscenza di abusi che si verificano in una parrocchia o in una comunità religiosa, si abbia il coraggio di parlarne, sia con l’interessato che con i responsabili della comunità. Anche un caso a prima vista puramente privato può essere sintomo di un malessere più profondo, che non deve essere sottovalutato. La prassi di insabbiare e nascondere, magari per timore dello scandalo, non serve per il bene della comunità e neppure per quello dei diretti interessati.
Per fortuna Paolo non si limita a dire che bisogna amare il proprio prossimo. Se c’è un concetto pieno di ambiguità è proprio quello dell’amore. Per questo Paolo mette dei paletti molto precisi richiamandosi ai comandamenti del decalogo: l’amore non è semplicemente un bel sentimento ma una scelta di vita che consiste nel rispettare la persona dell’altro, fornendogli, per quanto sta a noi, tutto ciò di cui ha bisogno per realizzare pienamente la sua umanità.
L’amore significa anche sentirsi responsabile del proprio prossimo. Da qui nasce un’esigenza molto rischiosa: correggere il proprio fratello se sbaglia nei nostri confronti o se commette qualche ingiustizia verso gli altri. Purtroppo in nome della correzione fraterna si è giustificato persino il tribunale della santa inquisizione. Perciò andiamoci adagio. La prima condizione a cui non si può mai derogare è la tutela della libertà dell’altro. Non tocca a me sindacare ciò che lui fa o pensa oppure cercare di riportarlo su quella che secondo me è la retta via.
E allora che fare? Una sana correzione fraterna ha solo un nome: comunicazione. Un termine oggi molto in voga che fa rima con comunità e comunione. È solo nel comunicare i propri pensieri, esperienze, scelte, desideri che si aiutano gli altri a crescere e a correggersi. Ma attenzione! La comunicazione è frutto di una ricerca mai conclusa. Chi pretende di comunicare verità acquisite e indiscutibili, come se fossero rivelazione divina, non comunica, ma compie un sopruso che non bisogna tollerare. E per di più la comunicazione deve essere sempre bidirezionale. Per poter comunicare bisogna saper ascoltare e far tesoro di ciò che l’altro ha da dire.
Che dire allora del silenzio che pervade le nostre chiese, dove durante i riti religiosi uno solo sa che cosa bisogna fare e dire, seguendo un rigido protocollo? Può essere certo un silenzio pieno di Dio, ma anche un silenzio pieno di noia e di rifiuto. Ne è testimone l’abbandono sempre più frequente della pratica religiosa. Ma come si fa a comunicare durante la celebrazione liturgica? O meglio, che cosa ci stanno a fare le chiese come luogo di incontro della comunità cristiana?
Sarebbe davvero bello poter vivere in una comunità nella quale cercare almeno di realizzare l’amore vicendevole e la correzione fraterna, pur rispettando l’altrui libertà di pensiero e di azione. E’ un sogno da sempre, ma oggi mi sembra ancor più complicato ed irrealizzabile, in una società colma di vincoli e impegni, in cui ognuno compie il proprio cammino da solo o al massimo, se proprio è fortunato, con la propria famiglia e una piccola cerchia di amici…